Regia di Michele Placido vedi scheda film
L’azienda tessile Varazzi rischia di chiudere mandando sul lastrico più di 300 operai. Una multinazionale francese è disposta a rivelarne la proprietà. Madame Rochette (Anne Consigny) arriva in Italia per trattare con i fratelli Varazzi (Michele Placido, Donato Placido, Gerardo Placido). L’accordo viene raggiunto con buona soddisfazione delle parti, la fabbrica continuerà a vivere e nessuno perderà il proprio posto di lavoro. I francesi pongono però una sola condizione agli operai : rinunciare a 7 minuti della loro pausa pranzo. A decidere sulla questione, per conto dell’intera azienda, è il consiglio di fabbrica composto da 11 donne capeggiate da Bianca (Ottavia Piccolo), la loro rappresentante sindacale, presente alle trattative ma solo simbolicamente, perché non vi ha proprio partecipato, limitandosi a registrare l’avvenuto accordo e a farsi ambasciatrice delle condizioni poste. Le altre sono : Angela (Maria Nazionale), Greta (Ambra Angiolini), Marianna (Violante Placido), l’unica impiegata del gruppo, Ornella (Fiorella Mannoia), Isabella (Cristina Capotondi), Hira (Clémence Poésy), Kidal (Balkissa Maiga), Sandra (Luisa Cattaneo), Alice (Erika D’Ambrosio) e Micaela (Sabine Timoteo). Le donne dovranno decidere in fretta, come si richiede al giorno d’oggi. Se accettare o meno le condizioni poste dai nuovi padroni.
Cos’è il lavoro oggi ? Cosa si è disposti a rinunciare pur di mantenere integra almeno la possibilità di poter contare su uno stipendio a fine mese ? Viceversa, cosa non si è disposti assolutamente a cedere per conservare intatta la propria dignità di lavoratore, esecutore materiale di doveri ma anche possessore formale di diritti riconosciuti ? Qual è il grado di compromesso che ognuno è disposto a raggiungere al fine di corrispondere alla necessità di dover lavorare senza disperdere nulla della propria integrità morale ?
Domande molto difficili queste, tragicamente contemporanee anche, in un tempo come il nostro votato al disincanto più bieco, dove la precarizzazione regolarizzata del lavoro ha proporzionalmente alzato il livello di ricattabilità sociale che ogni singolo lavoratore è disposto a sostenere. Fino a qualche decennio fa, sarebbe stato più facile dare una risposta a quelle domande, semplicemente perché esisteva ancora la convinzione che rimanendo uniti si poteva ottenere qualsiasi cosa, convinzione alimentata da una maggiore consapevolezza di quella che era la propria posizione sul luogo di lavoro, il proprio ruolo nel disegno sociale, che i diritti conquistati dopo anni di dura lotta nessuno te li poteva togliere con tanta semplicità. Oggi, questa convinzione non esiste più, erosa dalla perdita progressiva della forza contrattuale dei lavoratori, uccisa da una crisi economica che è diventata come un alibi volto a rendere giustificabile ogni azione unilaterale presa dai gestori dell’azienda mondo. Sorpassata da un atomismo galoppante che percorre il tempo moderno, che ha mutato profondamente la natura dei rapporti di lavoro, finendo per trasformare le decisioni collettive in scelte individualistiche, la solidarietà tra simili sul luogo di lavoro in diffidenza verso l’altro da se, la resistenza nonostante tutto in paura di lottare. Il lavoro, da un diritto conquistato dal basso, muta in una gentile concessione proveniente dall’alto. Perché la violenza più atroce che l’essere lavoratore è costretto a subire al giorno d’oggi, non si esaurisce tutta nella perdita improvvisa del posto di lavoro, tutt’altro. Una forma di violenza ancora più brutta è il doversi confrontare ad armi impari con un sistema economico che può speculare in maniera incontrastata sulla ricattabilità sociale di ognuno, che fa e disfa a proprio piacimento, potendo contare su un rapporto di forza tutto sbilanciato a suo favore. Una forma di violenza subdola perché sa agire molto bene sotto traccia, dando e togliendo sempre secondo i propri interessi, che sa far passare come una cosa straordinaria il fatto di poter conservare il proprio posto di lavoro, accettare passivamente ogni decisione presa dall’alto, come il frutto di quelle crisi economiche che sembrano create a comando. Crisi che, posta anche come “fatto storico” inconfutabile nei suoi aspetti socio-economici, fa pagare il prezzo più caro a quelli che meno hanno contribuito a produrla.
Tutto questo porta a riflettere “7 minuti” di Michele Placido, un film sul mondo del lavoro di fabbrica (ispirato alla storia reale accaduta in Francia a Yssingeaux) come non se ne facevano da tempo in Italia in una maniera così esplicita. Un tipico film d’attori (tratto dal testo teatrale di Stefano Massini e portato a teatro da Alessandro Gassman), che se non viene totalmente fagocitato dal tema sociale che tratta è perché investe molto sulla caratterizzazione di personalità al femminile a diverso modo problematiche. Chi conosce quel capolavoro di film che è "La parola ai giurati" di Sidney Lumet, non può fare a meno di notare che “7 minuti” ne segue lo stesso schema narrativo. In entrambi i film, è il “ragionevole dubbio” ad impossessarsi della scena, a mettere in discussione, cioè, una decisione che inizialmente sembra essere accettata comodamente da tutti. Se nel primo, una giuria popolare è chiamata a discutere su un caso d’omicidio, nel secondo si tratta di decidere se rinunciare o meno a 7 minuti della propria pausa pranzo.
I 7 minuti del titolo appunto, che sin da subito chiariscono cosa si è disposti a rinunciare senza particolari difficoltà pur di conservare il posto di lavoro, ma anche ciò che non si dovrebbe fare per evitare che, in un futuro neanche troppo lontano, si diventi una merce di scambio facilmente sacrificabile. Bianca e Angela (le migliori interpretazioni, a mio avviso) rappresentano i due poli opposti di questa dicotomia. L’una incarna la coscienza critica che intende prendersi tutto il tempo che ci vuole per far emergere la decisione più confacente possibile alla condizione di tutte di operaie ; l’altra, con quattro figli e un marito disoccupato da mantenere, ha solo il tempo di pensare a cosa occorre fare di più urgente per portare uno stipendio a casa alla fine del mese. Per Bianca (l'unica del gruppo ad essere presente anche nella pièce teatrale), 7 minuti sono una grande concessione se li si inserisce in quel più ampio disegno sociale che sta indebolendo alla radice la forza della posizione operaia, smantellata un pezzo alla volta in maniera subdola e ricattatoria (la somma algebrica di 7 minuti, per gli oltre 300 operai della fabbrica, porta ad oltre 900 ore di lavoro non retribuite ogni mese, il che ci rimanda direttamente alle riflessioni di Karl Marx sul plus-valore) ; per Angela, 7 minuti non sono niente se li si ancora al giorno per giorno, legati all’impossibilità di saper fare altrimenti, all’impellente bisogno di tirare a campare nonostante tutto. Tra le due posizioni più estreme, c’è un vuoto pneumatico che logora le coscienze di chi sa che non può prendere una decisione senza doverne pagare caro il prezzo, sia che si propenda per la resistenza ad oltranza, sia che si decida di rinunciarvi per spirito di sopravvivenza. Tra il si e il no si combatte una guerra tra poveri che rimette continuamente in circolo le precarietà esistenziali di ognuna. Si incancreniscono rapporti consolidati, si acuiscono dolori mai cicatrizzati. È ciò che si vuole. È quello che si fa.
È proprio questo a rendere “7 minuti” un buon film, capace di sapersi svincolare dalla “grande questione sociale” che rende esplicita. Ovvero, il concentrarsi insistito su queste donne poste sull’orlo di un baratro, anime spigolose sempre in procinto di esplodere, ognuna col proprio trascorso difficile alle spalle. Lo spirito di corpo cede il passo a un razzismo neanche troppo strisciante, emergono fragilità emotive, assenze affettive, si sputano vicendevolmente addosso vecchi e nuovi rancori (con Greta sugli scudi in questo particolare esercizio), paure, insicurezze, e lo fanno somigliando al cane che non vuole lasciare l’osso che ha appena azzannato.
Secondo me , per come è strutturato, è un film a cui si possono tranquillamente perdonare alcuni difetti, come la frettolosa delineazione di alcuni caratteri (Sandra e Isabella ad esempio), lo scadere nel manierismo “folkloristico” in certe situazioni (come le tammurriate fuori la fabbrica, o alcune escandescenze caratteriali), la superflua gratuità di certe trovate narrative (come la scena del parto) e il finale il quale, sempre secondo il mio modesto avviso, sarebbe stato meglio se fosse rimasto totalmente evasivo. Bravo Michele Placido comunque, un autore ostinatamente viscerale che, se da un lato, ha il difetto di sovraccaricare di troppo materiale i suoi film (vedi “Romanzo criminale”), dall’altro lato, ha dimostrato spesso di sapergli conferire una coerente solidità narrativa (vedi sempre “Romanzo criminale”).
“7 minuti” è un film da consigliare, fosse solo per le riflessioni che induce a fare sulle condizioni del lavoro di fabbrica, oggi.
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