Riferendosi alla produzione cinematografica degli ultimi anni non è sbagliato affermare che la nostra cinematografia quasi mai si è occupata in maniera seria e approfondita delle problematiche legate al mondo del lavoro e in particolare al diritto di esercitare le varie professioni secondo i criteri di giustizia e uniformità stabiliti dalla nostra costituzione. Andando a ritroso ma neanche troppo non mancano di certo i riferimenti all'argomento ma nella quasi totalità dei casi le anomalie legate alla precarietà lavorativa sono trattate di riflesso, più come fattore di crisi e di discordia che in qualità di oggetto dell'indagine filmica. Così se negli "Equilbristi" di Ivano De Matteo è il licenziamento del protagonista a dare il colpo di grazia alla crisi del suo menage matrimoniale a monopolizzare il minutaggio sono più che altro le notti insonni, gli incontri e i peregrinaggi in giro per la città del personaggio interpretato da Valerio Mastandrea. E se anche un regista di sinistra come Nanni Moretti quando si tratta di entrare in fabbrica per raccontare di sollevazioni sindacali e di lotta al capitale lo fa (in "Mia Madre") sotto forma di boutade è chiaro che non siamo ancora maturi per meritarci un film del valore e dell'influenza di "La classe operaia va in Paradiso".
Ciò detto "7 minuti" di Michele Placido senza averne le pretese si poneva almeno nello spirito sulla scia del film di Elio Petri pretendendo di affrontare il problema alla radice e nel suo luogo d'elezione che è appunto la fabbrica tessile dove il consiglio di fabbrica guidato dalla decana delle operaie (Ottavia Piccolo, rediviva) deve decidere se assecondare o meno le condizioni contrattuali proposte dalla dirigenza francese che ha rilevato la fabbrica dai vecchi padroni. Scongiurata la paura del licenziamento, per le undici donne chiamate a rappresentare il resto del consesso la materia del contendere è data dall'accettazione o meno della clausola che prevede la riduzione di sette minuti della pausa lavorativa. Davanti al quesito costituito dal confronto tra i vantaggi di una rinuncia che permette di garantirsi un salario sicuro c le incertezze di una vertenza sindacale che invece lo metterebbero in discussione, il gruppo finisce per dividersi tra favorevoli e contrari, ritardando la sottoscrizione dell'accordo.
Tratto dall'omonima piece di Stefano Massini "7 minuti" denuncia la sua natura teatrale nella concentrazione spaziale che pure Placido cerca di spezzare con sistematiche fughe verso l'esterno dove, alla stregua di una tragedia greca ritroviamo il "coro" di voci rappresentato dalla gente comune e dagli addetti ai lavori che diventano parte integrante della vicenda, interpretandola nei termini di un anonimato invisibile ma chiamato a partecipare in veste di inconscio collettivo della storia. E ancora, nella funzione evocativa della parola usata per restituire la "visione" di ciò che rimane fuori campo; e quindi per dare conto di un ingiustizia sociale che non riguarda solamente il degrado delle condizioni lavorative, messe sotto scacco da una crisi di sistema che rispetto alla minaccia di licenziamento riduce al lumicino le possibilità di contrattazione, ma che arriva al punto di mettere uno contro l'altro - in una specie di guerra fratricida - persone unite dal medesimo destino. Come succede in "7 minuti" quando il confronto tra favorevoli e contrari si trasforma in un gioco al massacro che offusca le coscienze e indebolisce la voglia di solidarietà, tirando in ballo temi scottanti e irrisolti come quelli dell'immigrazione e del razzismo di cui le protagoniste si appropriano e strumentalizzano a seconda della convenienza.
Debitore di un film come "Due giorni, una notte" da cui quello di Placido eredita sia contesto che contenuti, è un certo tipo di cinema di lingua francese e alcuni dei titoli più importanti realizzati sull'argomento - non solo quello dei fratelli Dardenne ma anche film del calibro di "Risorse umane" di Laurent Cantet e "La legge del mercato" di Stéphane Brizé - che bisogna tenere in mente per trovare l'esatta collocazione dell'opera di Placido. Il quale, per il suo film sceglie una messinscena lontana dal taglio documentaristico utilizzato dai modelli appena menzionati; infatti, pur partendo da un fatto realmente accaduto (in una società dell'Alta Loira francese) Placido tratteggia la realtà trasfigurandola attraverso l'espressionismo delle cromie imposte dalla fotografia di Arnaldo Catinari cosi come dalla valenza archetipica di personaggi che sono prima di tutto caratteri e poi persone a tutto tondo.
Se l'intento di trascendere il contingente con il linguaggio dell'universalità era una delle opzioni con cui rendere il testo di Massini, a non convincere del lavoro di Placido è la sensazione di programmaticità che fa sembrare ciò che accade non tanto il risultato della concatenazione di eventi imponderabili quanto piuttosto un'ordito calcolato a priori per giustificare l'affondo nei confronti di soprusi e ingiustizie. L'esempio lampante è fornito a circa metà del film quando al termine della votazione che ha decretato la vittoria delle "collaborazioniste" tutto viene rimesso improvvisamente in discussione da un pretesto risibile e senza una preparazione drammaturgia capace di giustificare i ripensamenti di chi poco prima era di parere opposto. E poi, sempre per restare all'interno del medesimo schema, l'opportunismo con cui a partire da quel momento la sceneggiatura inserisce una serie di confronti a viso aperto tra le diverse protagoniste che intente a rinfacciarsi i rispettivi opportunismi altro non fanno che tirare acqua al mulino di un generico manifesto di filosofia progressista certamente inopinabile nel prendere le difese dei più deboli ma altrettanto discutibile sotto il profilo cinematografico per via di una correttezza politica che va a braccetto con una sentenziosità (del tipo "Si vive con il lavoro non con le idee") e un didascalismo da talk show televisivo. La visceralità di Placido non è messa in dubbio e, di conseguenza, anche la buona fede che si deve a chi non ha più bisogno di concessioni o scorciatoie per continuare a lavorare. Al contrario a latitare è lo sguardo di un regista che nel corso della carriera aveva dimostrato, pur con qualche inciampo, di sapersela cavare con ogni genere di film. Ciononostante a fronte di ciò che è abbiamo detto "7 minuti" è stato accolto alla Festa del cinema di Roma da un consenso che da anni mancava all'autore pugliese, a dimostrazione di quanto ancora oggi messaggio e ideologie siano capaci di determinare i giudizi della critica.
(pubblicata su ondacinema.it)
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