Regia di Michele Placido vedi scheda film
Un profondo film di donne. Inoltre teatrale, di fine riflessione, che impone grandi doti di recitazione per l’intensità emotiva, e quindi anche di pensiero, che il testo di Massini richiede. Tratto da una storia vera, francese; eppure ben adattato al contesto italiano.
Ottima resa di alcuni mali del capitalismo odierno: il ricatto di cedere diritti in cambio della sopravvivenza economica; il ricatto sessuale, che rientra nel primo; la retorica dei padroni, che si ingegnano di mettersi la maschera dei buoni, i comprensivi, i simpatici, gli umani, pur di blandire la necessaria opposizione ai loro disegni, che in realtà servono solo a fare risparmiare loro sulla pelle della categoria dei lavoratori.
Intelligente anche il modo in cui viene mostrato quanto andrebbe fatto per superare questi problemi, da parte dei dei lavoratori medesimi: innanzitutto l’intelligenza sulla lunga distanza, la strategia, e dunque una certa versione della cultura, la cui assenza si paga di tasca propria; esercizio critico del dubbio, sulla sincerità delle intenzioni esibite da altri; l’unità degli intenti da parte di chi è accomunato nel ruolo di vittima, con l’annessa necessità di superare le divisioni anche più lancinanti.
Proprio le divisioni vengono mostrate per quanto sono: tutte motivate da elementi reali, per quanto spesso mal interpretati. Ma restano pur sempre un obiettivo del padronato sfruttatore: “divide et impera” servirà sempre al loro interesse economico.
Pregevole, per quanto spaventosa, è la carrellata dei motivi di tali divisioni: gli immigrati che si fanno andare bene tutto, svendendo la loro dignità - e quella altrui, alla fine -, perché (sbagliando) credono di non avere alternative alla miseria; perfino la colpevolizzazione dei disabili, che per alcuni godono di privilegi iniqui. Ma soprattutto quello che colpisce è l’individualismo: che non vede che l’interesse comune porta a sacrifici parziali che però danno vantaggi nettamente maggiori, sulla lunga distanza.
Il film, breve, mostra però alcuni punti critici. Le attrici sono in media un po’ troppo belle, e quindi un campione poco realistico. Placido ha scelto tante non professioniste: cantanti, peraltro qui bravissime (Mannoia, nonché una Nazionale che aveva già mostrato ottime doti recitative); soubrette (Ambra). Comunque recitano bene tutte, tranne Sabine Timoteo, troppo estenuata, nei sorrisi falsi e tirati e in altro.
In questa denuncia pure del cameratismo al femminile, tipico di un certo volgare mondo operaio, svettano proprio, in negativo, due personaggi citati: Ambra Angioini, nei panni fastidiosissimi della psicolabile arrogante; Maria Nazionale in quelli, difficili, di una napoletana che pensa solo a se stessa, e per la quale non esiste spirito di gruppo, né fatica del capire, ma solo concretezza immediata nel puro interesse privato. Memorabili le scene in cui chiede l’elemosina in chiesa, e quando urla al cellulare, con una molestia di cui pare non tenere conto.
Eccellente Ottavia Piccolo, come responsabile esperta, giusta, sobria ma determinata, del destino collettivo.
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