Regia di Stefano Calvagna vedi scheda film
Quando il basso budget e la risposta alle sfide creative non collimano
Nella cornice di una tra le più longeve arene estive romane un gruppo di persone si accinge ad assistere all'ultima fatica di Stefano Calvagna, volto seminoto ai margini di fiction e cinema italiani. Dopo un'attesa sconsiderata dello stesso, al quale è affidata la presentazione, e gli elogi del critico-presentatore, veniamo a sapere che Calvagna ha esordito 16 anni fa con Senza Paura, pellicola su una banda di malviventi balordi, uscita in un periodo in cui il cinema italiano puntava su temi ombelicali e intimisti oppure sulla commedia innocua (cita Muccino e Pieraccioni). Come apprendo anche durante una lettura post visione su una rivista on line di chiara matrice destroide - machista quello dell'esclusione o dell'autoesclusione di Calvagna dal circuito del "cinema che conta" è un leit-motiv di tutta la sua produzione, abbastanza prolifica sebbene passata (ingiustamente?) in sordina. Calvagna scrive, recita, produce, dirige, e non chiede mai i contributi dello stato per realizzare i suoi film, elemento certamente condivisibile visto lo scarso valore di almeno metà di quelli definiti "di interesse culturale". La critica ufficiale - anche se non si sa bene quale sia - lo ha bistrattato, deriso, emarginato, per la sua non tropo velata non-appartenenza alla sinistra intellettualoide: gli interessi precipui del regista infatti, tornati " di tendenza" dopo il successo di serie tv come Romanzo criminale e Gomorra, risiedono nell'espressione della realtà nuda e cruda, nell'antiretorica, nella dualità dei personaggi divisi tra l'oppressione del lato oscuro e il desiderio di riscatto, nella messa in scena della violenza senza filtri. Tali presupposti gli sarebbero valsi, anni fa, il titolo di Tarantino italiano.
Si vis Pacem para bellum si apre con un'impattante inquadratura dall'alto del fiume Tevere, lo stesso simbolo di tanta romanità feroce, mondana o pacchiana ma forse, anche, lo stesso fiume da cui nasceva il protagonista-supereroe di Lo chiamavano Jeeg Robot. Anche Stefano Costa (omonimo del regista-attore) infatti è un "cattivo dal cuore buono", come si rivelava essere in modo assai meno didascalico il personaggio di Santamaria. Nella realtà suburbana e brutale di Costa, però, non arriverano salvifiche e favolistiche radiazioni a mutare il corso degli eventi e l'evolversi della personalità dell'anti-eroe. L'uomo uccide, e lo fa con tranquilla consuetudine, al soldo di un boss un po' ingrigito (Massimo Bonetti, unico veterano tra gli attori).
Per gran parte della storia, fotografata in modo amatoriale e forse volutamente sciatto, assistiamo alla quotidianità perfettamente scandita del protagonista: qui la noia non riesce mai a condensarsi in visione ma assume i connotati della routine di un personaggio di cui non riusciamo mai a sapere molto nè a scorgere inaspettate sfumature, impantanato in una monodimensionalità che si proclama orgogliosa normalità. Stefano Costa lavora come buttafuori, fa il macho con una cameriera cinese che diverrà il suo grande amore spaventando a morte i clienti cafoni del suo locale, conosce un povero diavolo disoccupato il cui ruolo nella trama appare ben presto chiaro a chi guarda, va a trovare la made malata di Alzheimer, prega la statua di Budda. Il tutto con la medesima espressione e un tono monocorde per il quale la cosiddetta "natura" dell'uomo sembra essere poco più di una scusa.
Le sequenze di pestaggi e botte abbondano, motivate dalla trama e dall'indole del personaggio, ma ciò che non si spiega è l'intento mozzato, ipreciso e bizzarro di alimentarne la tensione con intermezzi musicali esagerati e approssimativi. Oltre che nelle scene di violenza il commento musicale molesto fa capolino nel montaggio delle scene erotiche. Particolarmente visibile, forse piazzata come manifesto di un cinema veritè crudo e spietato, è la scena della liason tra Costa e la figlia del boss, ovvero l'ormai onnipresente stereotipo della ragazzina annoiata e pericolosamente attratta dall'uomo "maschio", nella quale la musica fanfarona sottolinea la presenza genitale e la scontatezza dell'evoluzione di un inutile rivolo della trama (quando il feroce padre di lei scoprirà della storia avrà una reazione incredibilmente pacifica). Altra scena clou in tal senso è quella con l'amata Li-Ang, la prima donna che il protagonista guarda negli occhi, di un pudore quasi innaturale se non fosse per le espressioni dei due e dell'onnipresente musica, qui molto più da soft-core.
Oltre alla recitazione studiatamente poco convinta di Calvagna vale la pena citare l'impaccio costante e l'incapacità di rispettare i tempi dei dialoghi - non proprio realistici, anzi, a tratti invischiati in quella retorica sospesa tra sceneggiati all'italiana e film di denuncia malfatti- esibita da comprimari e comparse. Un esempio per tutti è l'insostenibile, benchè breve, scambio di batture tra i ragazzetti al ristorante cinese, in cui traspare la forzatura dei botta e risposta che si vorrebbe giocosi, spontanei. In una storia così scarna, di ordinaria periferia, l'espressività anche un po' naive degli interpreti avrebbe potuto fare molto, ma la credibilità risulta assente dai corpi, dai volti e dalle voci di tutto il cast, in cui spicca la comprotagonista femminile.
A testimonianza di tanta realtà e immediatezza,infatti, la romana dai tratti cinesi Francesca Fiume mostra uno scarso legame emotivo con il suo personaggio, forse perchè impegnata a tenere a bada la cadenza tutt'altro che orientale, esplosiva e quasi orgogliosa nel reality del 2015 "Italiani made in China"(programma assai gradevole nonostante la vacuità di metà dei personaggi/persone vere). Del resto anche la quasi comparsa italo giapponese Andrea Cocco, interprete del fratello "cattivo"di lei pestato da Costa, altri non è che il vincitore del Grande Fratello 2011.
Rimane, su tutti, un intenso momento dal gustoso sottotesto comico: quando il boss chiede a Stefano cosa significa il suo tatuaggio in latino, lo stesso che dà titolo al film, è impareggiabile l'intensità del beffardo sorriso di quest'ultimo mentre pronuncia "se vuoi la pace prepara la guerra". E' forse questo il suggello di un film che vorrebbe farsi portavoce di un cinema altro, un cinema tatuato, muscolare, di ruoli predefiniti (donne sante o puttane, immigrati buoni come il pane o cattivi come il diavolo, sicari eroici e poliziotti meschini) e rassicuranti appigli ad un universo citazionista (Tarantino ma anche Leòn di Besson, evocato nella scena della valigia e nella presentazione iniziale) imitato in modo maldestro. Pellicole come queste, seppur in parte giustificabili per il basso budget di realizzazione, fanno certamente rivalutare il succitato film di Mainetti, roboante e probabilmente costoso, accolto con l'aura di capolavoro e non esente da difetti ma almeno estremamente curato nei dettagli e rispettoso del desiderio di intrattenimento del pubblico a cui si rivolgeva.
Il finale vero e proprio, prevedibile da chiunque abbia visto almeno un episodio di un telefilm poliziesco, arriva comunque nonostante l'incepparsi del dvd in sala (pubblico sghignazzante e abbastanza rilassato nell'accogliere una delle tante lacune del film), e lo fa non risparmiando drammaticità condita da musiche strazianti.
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