Regia di Marco Segato vedi scheda film
Opera prima dopo la lunga pratica da documentarista (L’uomo che amava il cinema, Ora si ferma il vento, Via Anelli, Ci resta il nome), è nata da una lettura, il libro di Matteo Righetto, ed è cresciuta in un lavoro di squadra intenso, faticoso, emozionante e, perché no, spesso divertente. E soprattutto da un amore, quello per le Dolomiti...
Sono in tre sul palco, dopo la proiezione, Marco Segato, regista, Marco Paolini e Mirko Artuso, attori, per questo La pelle dell’orso, miglior film al festival Annecy Cinéma Italien 2016.
La platea strapiena dell’Edera di Treviso li accoglie con la simpatia e il calore di sempre e una buona mezz’ora passa a parlare con la colloquialità semplice, alla buona, del gruppo di amici all’uscita da un film.
Parla Segato, questa sua opera prima dopo la lunga pratica da documentarista (L’uomo che amava il cinema, Ora si ferma il vento, Via Anelli, Ci resta il nome), è nata da una lettura, il libro di Matteo Righetto, ed è cresciuta in un lavoro di squadra intenso, faticoso, emozionante e, perché no, spesso divertente. E soprattutto da un amore, quello per le Dolomiti, dove con la sua cinepresa segue Mario Brunello e il suo violoncello quando il grande musicista va a suonare d’estate sulle cime.
Sceneggiatori con lui Paolini e Monteleoni, ci tiene a sottolinearlo.
Paolini se ne sta zitto, serio, sembra restio a parlare, sulle prime, ma quando apre bocca è subito empatia, sorriso, ascolto rapito.
Dice che ha cambiato il finale, nel libro la storia finiva nel ’63, lui non poteva accettare “… che una fiction o qualunque altra cosa finisse dentro il Vajont, è un fatto personale”, borbotta.
E poi ci racconta dell’orso, il protagonista, portato qui da Zoldan, l’allevatore di un singolare parco di belve ammaestrate per il cinema in Ungheria, animali che si guadagnano da vivere, si direbbe, in un modo dignitoso che di certo un Circo non garantirebbe.
Ha una controfigura, il nostro bell’esemplare di orso a cui padre e figlio faranno la pelle, un animale un po’ meno domestico di lui e più propenso a scherzi malandrini, come salire su un albero di venti metri e venir giù dopo ore e ore di lunga contrattazione “sindacale” con la troupe .
Scherza e dice il vero Paolini, come sempre, e ci racconta di quelle misere case del dopoguerra in Val Zoldana, dove al tavolaccio accanto al fuoco mangiavano solo gli uomini, e le donne, zitte, col piatto in mano da un’altra parte.
E intanto Mirko Artuso descrive Leonardo Mason, il protagonista tredicenne a cui ha insegnato a recitare, a sopportare la fatica, i ritmi, i tempi spesso sballati di un set cinematografico.
Leonardo aveva la faccia perfetta per quella parte, nato nel bellunese e scelto fra più di duecento ragazzini. Uno, aggiunge Paolini, che sa quello che vuole dalla vita, cosa farà da grande (e il futuro ingegnere intanto ha fatto affari con la troupe trafficando con i suoi aggeggi informatici che sa usare alla perfezione).
A parte il gap generazionale, Artuso dice una cosa importante che spiega perché hanno scelto lui. Era quell’ “ombra” che aveva negli occhi, qualcosa difficile da spiegare a parole, serviva il cinema Kammerspiel di Segato, quel pedinare i suoi personaggi senza mai diventare ripresa emotiva né lancio di messaggi più o meno subliminali, a farlo emergere.
Quello di Segato è buon cinema fatto di cura, mestiere, amore per le storie, gli uomini, il loro essere al mondo così dove nascono e dove tocca ingaggiare qualche lotta per la sopravvivenza.
Come quella con el Diàol, l’orso che fa strage di animali da lavoro in un habitat dove tutti cercano di sopravvivere, e dunque anche lui fa la sua parte.
Nessun visibilio alla Revenant, questa è vita di montanari e di animali che vivono e muoiono perché la natura ha le sue leggi, ”e finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.” ci ricorda il buon Leopardi dal suo borgo selvaggio.
La voce della montagna è cupa, il brontolio del temporale che si addensa nel cielo fa paura, ma solo a chi quel mondo l’ha dimenticato o, peggio, tradito.
Pietro, Domenico, Lucia, l’orso, la comunità di Forni, tutti convivono con quel mondo e ne accolgono le regole, vivono la loro parte.
Siamo a Forni di Zoldo, anni ’50. Il corteo carnevalesco di maschere grottesche e il rito del falò con la testa di cervo sul cocuzzolo da centrare a fucilate apre uno scenario paesano a tinte forti, dove la voce aspra della montagna, il rimbombo delle masse di nuvole temporalesche e il taglio duro delle stratificazioni rocciose si riverberano nei suoi abitanti, nei visi che sembrano scolpiti nella roccia, nelle scarne parole di vite faticose, dure da attraversare.
Pietro (Marco Paolini) è un emarginato, la bestia del paese, tenuto lontano dalla comunità per un passato di carcere, alcool e una moglie morta in circostanze non chiare. Vive col figlio Domenico (Leonardo Mason) e lavora nella cava di pietra di Crepaz. La magnifica interpretazione di Paolini, scabra e silenziosa, uguaglia il livello della sua vita a teatro e ne sancisce la completezza di attore.
Nella sua caccia all’orso Pietro punta quello che gli resta della sua dignità, una possibilità di riscatto, soprattutto di fronte a sé stesso. Degli altri, compreso il figlio, gli importa poco, vive nel silenzio e d’un tratto sparisce con il suo fucile su per la montagna. Ha fatto una scommessa, 600.000 lire, la paga di un anno, se riporterà la pelle dell’orso.
Parte da qui il secondo tema forte del film, la piccola Odissea di Domenico e il suo percorso di formazione. L’adolescente diventerà uomo in questa avventura durissima alla ricerca del padre.
Per stratificazioni successive di sottotesti, appena suggeriti ma di netta evidenza, al tema della ricerca del padre si aggancia l’incontro con Sara (Lucia Mascino) ex prostituta che vive randagia con il suo mulo tra un casolare e l’altro. Per Domenico sarà un modo di ritrovare la madre perduta quando era troppo piccolo, una vecchia foto delle due donne insieme, giovani e belle, riempirà quel vuoto lasciato irrisolto da troppo tempo.
E così il giovane Domenico, che non vuole assolutamente esser chiamato bocia, tra balzi, dirupi e boschi, di fronte all’enorme massa violenta dell’orso che si avventa ferito, scoprirà di essere diventato uomo e prenderà il posto che il padre gli sta lasciando in quel naturale avvicendamento che da sempre ha scritto la vita dell’umanità.
Con la pelle dell’orso,vestito di tutto punto con il completo scuro della festa, dopo aver spazzolato le grosse scarpe da montanaro, andrà a riscuotere il premio della scommessa.
“Mi fido” dice serio a Crepaz che gli chiede perché non conta i soldi.
Su quella strada bianca, ripreso di schiena, si allontana, fiero, verso il futuro.
Pensiamo un po’ a Chaplin? Ma sì, perché no, ma Domenico è solo.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta