Regia di Edoardo De Angelis vedi scheda film
Il primo punto a favore di Indivisibili lo segna l’estrema onestà nei confronti dei tanti (ed illustri) modelli di riferimento. Un gioco citazionista scoperto e leggero, a cominciare dai nomi delle protagoniste (Viola e Dasy) che riprendono quasi pedissequamente, eccezion fatta per le sfumature di imbastardimento dovute alla anagrafe dialettale, quelli delle gemelle siamesi Daisy e Violet Hilton, ingaggiate da Tod Browning per il suo capolavoro malato Freaks. E poi il personaggio del manager mellifluo e meschino che si chiama (letteralmente!) Marco Ferreri, padre di tutti i vivisezionatori della mostruosità che si annida nel quotidiano. La donna scimmia è altro nume tutelare dell’opera di De Angelis: le peculiarità elevate a moneta spendibile, la diversità quale merce di scambio e manna per i superstiziosi e gli infingardi. Infine Reality, di quell’altro esperto in mostri insospettabili che risponde al nome di Matteo Garrone. La scena iniziale, la carrellata sulla festa canterina, la pronta ed immediata dettatura delle coordinate di un sogno da cui (differenza comunque esiziale) le protagoniste tenteranno di (s)fuggire. E come in Garrone, il fondale di questa storia di catene, condizionamenti e tentativi di elevazione (nonché vera e propria separazione) fisica e psicologica è ascrivibile alla categoria della periferia sporca e malsana: la Castel Volturno de L’imbalsamatore ritorna in Indivisibili con ancora maggiore ed icastica potenza: luogo di detriti e macerie (si ricorderà la parabola del noto Villaggio Coppola, miraggio di ricchezza sacrificata sugli altari degli interessi malavitosi, anzi nato con essi), accolita di perdigiorno e di parenti e genitori fané, serpente velenoso tra le cui spire ci si può sentire comodi, qualora si abbiano doti da incantatore affinate dalla necessità di arrangiarsi e navigare a vista.
Al di là del contesto socio-geografico, esso stesso protagonista, la scrittura dei personaggi di Indivisibili è potente ed accurata. Il padre, che si sente poeta e cuce su misura per le gemelline un repertorio canzonettistico che fa facile leva su un certo sentimentalismo artefatto proprio di ogni Meridione del mondo (quello stesso che non può che garantire soldi, successo e fluidità di vita), la madre che si veste come le prostitute del litorale domizio e brucia in fumo (d’erba) un quotidiano che la vede lato debole della catena di successi e modesti tour provinciali, un religioso che, forte del suo orecchino da prete operaio, impasta gli alti riferimenti evangelici con la creduloneria di un popolo che si abbandona alle scontate virtù di una canzone religiosa e stempera l’emarginazione nell’attesa di un miracolo. E poi ci sono naturalmente loro, le gemelle Angela e Marianna Fontana, vero punto di forza del film. Attrici esordienti ma con una consapevolezza del mezzo che ha (davvero) del soprannaturale, incanalate dall’ottima regia lungo la strada di una ferinità spontanea (ravvisabile nel linguaggio colorito di un vernacolo pronto a cogliere ogni sfumatura) che cede volentieri il posto ai sogni che tutte le prime giovinezze, anche turbate, anche diverse, portano con sé. La strada della divisione delle sorelle siamesi percorre un ottimo doppio binario: il miraggio dell’operazione significa soprattutto far riemergere, dai meandri di una vita forzatamente in coppia, la individualità che sembrava perduta, la differente psicologia di ognuna, il modo di porsi di fronte al mondo che non può essere costretto ad uniformarsi, nemmeno quando la natura pare abbia deciso diversamente (si veda la scena della seduzione di Dasy da parte di Marco Ferreri, si notino le facce, gli imbarazzi delle due sorelle, impasto laocoontico di sentimenti e volontà per una volta distanti, che soltanto l’amore fraterno, che è universale e tipico, e che vive al di là di ogni saldatura corporea, può ricondurre ad unità). Quella indivisibilità che verrà meno con una (sfiorata) tragedia ridiventa allora esclusivamente psicologica o, meglio, latamente sentimentale (per quanto paia annidarsi quale condanna eterna, come testimoniato dal percorso che Viola compie, sola, nel corridoio dell’ospedale, accompagnata dall’ineliminabile, ed indivisibile, fardello di una flebo) ed apre nuovi orizzonti che non siano quelli di una folle santità di coppia, certificata da stimmate farlocche eppure buone a rigenerare le economie domestiche.
Indivisibili è oggetto filmico di buonissima fattura, capace di rigenerare, anche attraverso il ricordato pastiche di rimandi, citazioni, omaggi, un cinema italiano troppo spesso pavido ed incapace di giocare con i generi (per quanto questa stagione abbia visto alcune forse inattese fioriture di piccoli gioielli similmente coraggiosi, pensiamo a Non essere cattivo, Lo chiamavano Jeeg Robot, lo stesso Veloce come il vento). Edoardo De Angelis, dopo l’interessantissimo Perez. (con uno Zingaretti cattivissimo ed inedito, come può esserlo un eroe televisivo prestato ad un affresco di più largo respiro), si conferma regista dalla mano ferma e dalle visioni mai banali. La storia delle due sorelle emoziona e resta dentro, accompagnata da alcuni tormentoni canori che sembrano presi da un Non è la Rai 2.0, ma soprattutto dalle musiche del grande Enzo Avitabile, sempre godibili e penetranti, per quanto leggermente virate lungo il registro già adoperato per il bellissimo Black Tarantella.
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