Regia di Edoardo De Angelis vedi scheda film
Forse da questa polemica sul film italiano da portare agli Oscar si può cavare qualcosa di buono, e quel qualcosa di buono è proprio il film che l’abile Paolo Sorrentino (o chi per lui) ha scelto come cavallo su cui puntare contro Fuocoammare. Indivisibili, secondo il regista contemporaneo più importante della nostra cinematografia, ha tutte le carte in regola per piacere ad un pubblico internazionale ed essere capito dall’Academy. Non so se sia vero, so però che Sorrentino ha perso la battaglia. Ciò che appare evidente è l’organicità di Indivisibili ad una certa idea che si sta finalmente affermando, una sorta di “new italian way”. Come i recenti Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, Fiore, giusto per citarne alcuni, il film riesce a parlare un linguaggio universale attraverso un disinvolto utilizzo degli strumenti e dei codici italiani, svincolandosi da un’ottica meramente provinciale per recuperare la coscienza artigianale dell’ingegno e contaminarsi con le tendenze extranazionali senza perdere l’identità. Film, peraltro, realizzati con budget non mirabolanti e che, pur raccontando storie peculiari di una parte di mondo, sanno proiettarsi al di là dei confini.
Per rendere il concetto meno sibillino, prendiamo proprio Indivisibili. All’apparenza, il racconto di queste gemelle siamesi (le passionali e straordinarie gemelle Angela e Marianna Fontana) ha i connotati di una favola nera (sceneggiatura del regista con Nicola Guaglianone, autore del soggetto, e Barbara Petronio), in cui i cattivi sono chiari dall’inizio per l’evidenza di fisicità segnate: un padre torbido, cupo e brutale coi capelli scapigliati e la frustrazione del paroliere fallito (il feroce Massimiliano Rossi), una madre dagli occhi annacquati dall’alcol e la cannetta sempre tra le labbra carnose (la penetrante Antonia Truppo), il sorriso sinistro del fascinoso seduttore che ha fatto esordire Anna Tatangelo (il mellifluo Gaetano Bruno); e per il contesto ambientale che trasmette la giusta dose di disperato squallore (interni angusti, periferie abbandonate, sporcizia diffusa, rifiuti umani: scene di Carmine Guarino, costumi di Massimo Cantini Parrini, suono di Valentino Giannì).
Le due protagoniste, legate dalla nascita e mai divise per ovvi e meschini motivi commerciali, si esibiscono come fenomeni da baraccone nelle feste più cafone di una regione persa nei suoi miti neomelodici. La prima cerimonia che vediamo è però l’emblematica testimonianza di un cinema stratificato che ha assimilato gli archetipi napoletani e la lezione di Cronenberg o Lynch, l’alto e il basso, lo spettacolo d’autore e la televisione più varia: l’indiscutibile richiamo all’apertura di Reality e le sequenze più comuni del Boss delle cerimonie, la grottesca attenzione sull’umano di Sorrentino e le liturgie nelle feste della serie Gomorra. Edoardo De Angelis, al terzo lungometraggio dopo Mozzarella Stories e Perez., riesce a controllare con perizia lo scatenato furore del suo sguardo visionario e mantiene al limite la barriera tra sconfortante realismo ed onirica bizzarria (anche grazie alle luci ambigue di Ferran Paredes).
Tutta la dimensione religiosa si muove su questi due livelli ed è probabilmente il rischio maggiore che De Angelis corre. E ogni tanto cade nella rappresentazione di questa nuova chiesa dedita al culto della purezza, delirante intuizione imprenditoriale di un fumettistico prete con l’orecchino che vuole sfruttare la massiccia presenza di nordafricani (Gianfranco Gallo spaventoso). La scena topica della processione, pur di clamorosa violenza quasi agghiacciante, ha un’efficacia talmente potente che avrebbe potuto fare a meno del sospetto autocompiacimento che la pervade. Ma l’interesse principale di De Angelis è per le due protagoniste, che non tratta come una cosa sola (è la logica del padre: due disabili inconciliabili con l’idea di una separazione) ma come due individualità vittime del sistema che stanno elaborando il desiderio del lutto della separazione. Il film trasmette il dolore fisico, ragiona sulle differenze e sul doppio, sull’io e sulla società, ed è potente, commovente, lancinante. Come le canzoni di Enzo Avitabile.
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