Regia di Roberto Faenza vedi scheda film
Tra i misteri italiani più angoscianti della storia contemporanea, la scomparsa della giovane Emanuela Orlandi è stata finora oggetto di ciclici interessi giornalistici che hanno sempre evidenziato la complessità di un caso che sembra condensare il romanzo criminale romano. Per organizzare il discorso, Roberto Faenza parte proprio dalle ricostruzioni di due redattori di Chi l’ha visto? e costruisce un film che s’alimenta essenzialmente di una tesi giornalistica: la ragazza, cittadina vaticana, fu sacrificata per lanciare un messaggio alla Chiesa, il cui istituto di credito, sull’orlo della bancarotta, era pieno di debiti nei confronti dell’élite criminale nostrana e il delitto faceva parte di una strategia più ampia (il tentato omicidio del papa, la scomparsa di Mirella Gregori, il ricatto per le foto del papa in costume). Materia densissima, di non facilissima comprensione per i non avvezzi alla cronaca giudiziaria o quella nera, La verità sta in cielo deve il suo (bruttarello) titolo ad una dichiarazione uscita dalla bocca di Bergoglio («lei sta in cielo») ed è il film ideale per un’istituzione determinata a depurarsi dagli scandali.
Con un’operazione un po’ retrò, Faenza mette in piedi uno di quei film a tesi che ebbero in Giuseppe Ferrara il campione nostrano. Dal quel cinema lì, artigianale e documentato ma anche goffo e confuso, Faenza recupera un taglio pseudo-thriller e i personaggi tagliati con l’accetta, l’intenzione didascalica e un vago sentore complottista. È evidente che la scelta di strutturare il film sui dialoghi (e soprattutto sui monologhi) dei giornalisti mostri subito la corda, e non si crede un attimo a Maya Sansa, inviata a Roma dall’improbabile direttore di una tv inglese Shel Shapiro, inseguita da oscuri figuri che le mettono le cimici in camera, né si crede a Valentina Lodivini che fuma drummini. Sono personaggi senza spessore, puri portaparola dell’autore, funzioni narrative con l’unica motivazione di conferire un labile coefficiente di finzione al film. Non bastano un Marcinkus col sigaro o un Carboni col parrucchino per compensare queste due giornaliste che parlano con frasi fatte o troppo scritte.
Così come, d’altra parte, i frammenti con Riccardo Scamarcio e Greta Scarano (che da cinquantenne ha un trucco parecchio imbarazzante), pur retti dalla loro lampante chimica erotica, appaiono impacciate ricostruzioni che liofilizzano l’estetica di Romanzo criminale (il dècor cafone, i costumi eccessivi, le canzonette pop – qui ricorre un Toto Cotugno vincitore di Sanremo ‘80) e al contempo addomesticano il potenziale negativo del filone (c’è una sottopolemica interna sulla mitizzazione della banda della Magliana). Partendo dal pretesto dato dalle indagini su Mafia capitale (il caso Orlandi come crocevia all’origine della nera stagione), il film sembra un’appendice storica a Suburra che non sa contaminare l’intento documentaristico coi codici del genere. E alla fine la sua dimensione più adeguata parrebbe la televisione, da cui sostanzialmente s’origina, con le parti di Sansa e Lodovini relegate ad una più coerente argomentazione in studio.
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