Regia di Paul Greengrass vedi scheda film
«Ricordo. Ricordo tutto».
E pure noi ci ricordiamo tutto, ogni capitolo della storia/esistenza bourniana. Così come ci imponiamo di non ricordare l'apocrifo The Bourne Legacy, così brutto e sbagliato: un intruso, altro che eredità.
D'altronde la saga della spia senza memoria divenuta preda numero uno dell'Agenzia ha segnato una parte fondamentale del cinema d'azione degli ultimi quindici anni, e di conseguenza dell'immaginario collettivo, dentro il quale sono confluiti realismo spinto e paranoie globali.
L'intuizione alla base della ripartenza - desiderata un po' da tutti: studios, autori, attore, pubblico - è semplice: riappropriarsi dell'eredità, della propria identita. Come? Attraverso un altrettanto semplice disegno di "ricalco". Ma fatto come miglior ingegno comanda, da mani e menti che hanno familiarità, padronanza, paternità con il soggetto.
In fondo Jason Bourne - nome, cognome, Matt Damon, riaffermazione di (tutti i) sé - altro non è che una rielaborazione/rivisitazione/rilettura degli episodi 2 e (soprattutto) 3.
Un'operazione - intelligente e inevitabilmente limitata - di riscrittura di ogni componente essenziale: struttura e impostazione narrativa, composizione dei personaggi (dal nuovo bastardissimo capo della CIA interpretato da Tommy Lee Jones, al capo della Divisione Cyber interpretato da un'ambigua Alicia Vikander il cui ruolo evoca prima quello di Nicky Parsons e poi quello di Pamela Landy), configurazione estetico-visiva, presenza/enfasi registica e di montaggio, partitura sonora, lettura critica delle psicosi odierne (a partire dall'eterno scontro privacy vs. sicurezza).
Frammenti conosciuti e validi di una costruzione filmica con la quale identificarsi, riconoscersi e riconoscere valori, dispositivi, codici già immagazzinati nel proprio archivio mnemonico personale. Sì, ce lo ricordiamo.
Vedere l'ipercinetica sequenza - lunga, articolata, complessa - ambientata in un'Atene sconvolta da noti avvenimenti, tra esplosioni, fughe e inseguimenti a rotta di collo, scene di massa e caos, equivale alla catarsi di quando si ripercorrono importanti luoghi familiari. Una sequenza che è il pulsante motore action del film, e la firma: quella di Paul Greengrass (e dei sodali direttore della fotografia e responsabile del montaggio). Riprese frenetiche, convulse, concitate, stordenti, dal flusso interrotto e dal respiro a mille, con la camera a mano armata di tutte le ossessioni del regista.
Ritorni e ricordi disseminati lungo la solida linea narrativa e attorno all'area dei contenuti (sempre nella sottodimensione del déjà-vu, con i dovuti accorgimenti del caso e aggiornamenti: si accenna a Snowden, si insinua il ruolo prepotente dei social media): tra eventi traumatici, asset spietati con la faccia cattivissima di un Vincent Cassel impeccabile, rivelazioni dal passato, sporchi giochi di ruolo all'interno dell'Intelligence e altri spettacolari azzanni action quali la sequenza a Las Vegas e il corpo a corpo finale, l'organismo bourniano (ri)vive e riaccende le proprie memorie, connettendosi con sé stesso e con lo spettatore.
Come e persino nella scena finale: un passo avanti, lo stupore nello sguardo dell'altra. È sempre Jason Bourne a condurre le danze, spiare, controllare.
Aprire ad un eventuale, possibile prosieguo (che dovrà però avere il coraggio di andare avanti).
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