Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
È anche e forse soprattutto una storia che ci fa riflettere in modo meditato e complesso sul precario valore del tempo, ormai riconosciuto come la quarta dimensione nella misurazione della nostra esistenza, sul libero arbitrio che disponiamo per decidere il nostro futuro, quindi sul concetto della evitabilità della predestinazione.
Allarga il tuo pensiero. Apri la mente. Se impari a conoscere gli altri, anzi possibilmente “gli altri”, capirai l’umanità. Perché capire sarà anche conoscere il futuro.
Dennis Villeneuve riscrive la storia del cinema sci-fi. Da un ardito breve racconto di fantascienza dell’allora 35enne scrittore-informatico statunitense Ted Chiang, ‘Storia della tua vita’, il regista riflette sulla conoscenza e sull’accettazione di chi non conosciamo, di chi cioè ci ha fatto sempre paura e minaccia le solide convenzioni che ci siamo costruiti nei secoli. L’extra-terrestre. Come diceva ai suoi studenti il professor George in ‘A Single Man’ di Tom Ford: “E parliamo un po’ della paura. La paura dopotutto è il nostro vero nemico. La paura sta invadendo il nostro mondo. La paura viene usata per manipolare la nostra società: è così che i politici spacciano la loro politica. … Pensateci su: la paura di essere attaccati…”. Ma se l’apparato politico-militare reagisce nell’unica maniera che conosce – allerta massima, pronti ad attaccare – lo scienziato si avvicina curioso e l’umanista cerca il contatto per imparare. E ancora, se l’uomo in divisa scorge (e vuole scorgere) il pericolo da un termine usato impropriamente, la mente aperta del linguista accetta l’ampiezza dei significati possibili da dare, ben conscio che il dialogo e lo scambio aprono scenari inattesi e inimmaginabili.
Louise Banks (che meraviglia Amy Adams! Urla vendetta la sua mancata nomination agli Oscar!) ha due timori, contrapposti: avvicinarsi agli alieni, verso cui però prova uno strano senso di fiducia, e riuscire a tenere a bada i militari non solo americani prima che sconsideratamente li attacchino. La paura del diverso, la paura di una lingua incomprensibile sono sentimenti che predominano in questa era di emigrazione epocale: chi si sposta per necessità dalla propria terra si dirige verso luoghi che ritiene più sicuri oppure perché lì ritiene che possa chiedere aiuto per sciagure attese. Così succede a questi esseri che (si badi bene) non atterrano materialmente sulla terra ma vi appaiono, a più riprese e in più siti, seminando panico e reazioni bellicose. Il loro sistema di comunicazione ha un doppio linguaggio, il primo è parlato e risulta per il terrestre come un insieme di suoni grevi e rumori, e quindi intraducibile; la lingua scritta è meravigliosamente rappresentata da innumerevoli e misteriosi cerchi solo apparentemente tutti uguali disegnati tramite una strana sostanza che è tra un inchiostro e un gas nerofumo che emettono dai loro arti: una struttura di scrittura molto complessa che però segna l’inizio del “contatto” proficuo e necessario affinché l’insigne linguista possa comprendere i motivi della loro presenza sul nostro pianeta.
Perché sono qui?
Da dove vengono?
L’esercito americano le impone di ottenere le risposte a queste due domande, a lei invece servono per capire. Capire. E capirà e conoscerà il futuro. Il suo futuro.
La struttura del racconto è falsamente o solo parzialmente circolare: in realtà solo al termine della visione intuiamo che i flash di Louise non sono back. Con stupore scopriamo che i suoi sono flashforward, in quanto lei ha conosciuto e ha capito: “Tu hai in dono” le dicono i giganteschi alieni e in cambio le chiedono di essere aiutati, per far sì che l’umanità terrestre li aiuti quando da lì a tremila anni avranno bisogno. Questo miracolo narrativo è merito di un regista capace di costruire come un ingegnere il film in maniera stratificata, come più piani di racconto, l’uno sull’altro, che però come per osmosi si scambiano sensazioni, sentimenti, paure, successi, reazioni, e poi si integrano e si avvolgono, dando l’idea di un ricominciare. Come i segni circolari del linguaggio degli eptapodi. Non c’è attimo di sosta, non ci sono momenti di rilassamento, non li si vede mai nutrirsi, Louise Banks e il suo compagno di ventura, il fisico Ian Donnelly. Per quello che lei sta intuendo, per ciò che la sua mente sta realizzando, per l’eccitazione dei progressi che va man mano raggiungendo, per lo smarrimento che sta provando per il suo “dono”, per il dolore che sa che proverà tra qualche anno, Louise fa fatica persino a dormire per recuperare dallo sfinimento fisico e mentale che questi incontri le procurano. Nei due momenti clou la si vede perfino vacillare e quasi rinunciare: il primo accostamento all’astronave, quando la totale assenza di gravità ed il timore del primo incontro la mettono a dura prova; e poi quando decide, contro ogni ordine ricevuto, di farsi inghiottire nella gigantesca conchiglia/astronave per appurare la validità delle sue deduzioni e salvarli dall’imminente attacco che i militari di tutto il mondo stanno ormai allestendo. È in questo preciso momento che la comunione tra i due esseri così diversi, così lontani, che non avrebbero mai potuto capirsi se non con la buona volontà, si avvera, cercando perfino un improbabile contatto fisico per sancire l’alleanza. Abbiamo respirato faticosamente anche noi in quei due momenti, perché Louise era anche noi, la migliore espressione e rappresentante degli uomini aperti all’”altro”.
Fantascienza umanistica e filosofica e perché no filologica, fantascienza più umana se è possibile, anche se nell’ambito di un racconto fotografato non in maniera lineare ma estremamente rivoluzionario in quanto ci trascina dal terrore consueto del genere sci-fi a sensazioni di amicizia e collaborazione. Per questo Villeneuve ha riscritto e rivisto il genere, ma soprattutto perché, essendosi elevato al vertice artistico e narrativo della fantascienza, probabilmente ha realizzato ciò che lo avvicina più di tutti al Maestro Kubrick. Tra l’altro con un minuscolo ma doveroso omaggio al 2001 (una brevissima sequenza in un corridoio d’ospedale, curvo e stretto, non in verticale ma in orizzontale, che ricorda la corsetta dell’astronauta lungo la mega astronave del Maestro), il prodigioso regista franco-canadese costruisce un’opera magniloquente, parlando di alieni eptapodi (giganteschi calamari a sette zampe) e di terrestri impauriti fino ad immaginare un attacco verso le dodici conchiglie con cui sono arrivate sulla terra (conchiglie come i mostruosi baccelli de L’invasione degli ultracorpi di Siegel?). Una storia pseudo-circolare così come aveva immaginato Christopher Nolan con il bellissimo Inception, così come i misteriosi cerchi con cui dialogano gli alieni con l’esperta di lingue Louise, la straordinaria Amy Adams. È anche e forse soprattutto una storia che ci fa riflettere in modo meditato e complesso nello stesso tempo sul precario valore del tempo, ormai riconosciuto come la quarta dimensione nella misurazione della nostra esistenza, sul libero arbitrio che disponiamo per decidere il nostro futuro (Louise potrebbe anche decidere di non sposarsi o di non fare figli ed evitare quindi la tragedia che l’attende), quindi sul concetto della evitabilità della predestinazione. Sul cosa vuol dire oggi il termine Umanità. Il dialogo, la comunicabilità, la comprensione reciproca: ecco la ricetta per conservare la pace tra i terrestri e i visitatori, tra le razze diverse della Terra, tra i popoli delle tante nazioni che la abitano. I militari, gli agitatori populisti televisivi, i politici possono solo far danni: invece la comprensione, la fiducia e lo sforzo per comprendere chi non parla la nostra lingua è l’unica strada per la Pace, imparando il linguaggio dell’altro. Come quello di Abbot e Costello (i mitici Gianni e Pinotto italiani, e pazienza se a noi è toccato nel doppiaggio importarli come Tom e Jerry).
Grandissima è la regia di Denis Villeneuve, con inquadrature che “fanno” il racconto, campi lunghi da brividi, profondità di sguardo su panorami enormi che incutono timore, fotografia grigio-plumbea perfettamente intonata al tema, commento musicale che invade la mente, i suoni e i rumori che riproducono gli eptapodi per comunicare che si confonde con la musica stessa, inchiostro nero suggestivo lanciato per “disegnare” il loro linguaggio… che idee meravigliose! Il suo cinema è sempre potente e robusto, un possente parallelepipedo in cui e su cui nulla scricchiola, è sempre un’opera compiuta che lascia immancabilmente senza fiato. Ovviamente non manca, perché non può mancare, perché è la sua caratteristica come nei suoi fortunati film precedenti anche drammatici come La donna che canta, la componente thriller, il colpo di scena, rappresentato nel finale quando noi finalmente possiamo ricucire la trama (a)temporale e dare un senso alle espressioni di Louise. Che regista!
E l’altra faccia di questa meravigliosa medaglia è appunto la migliore Amy Adams che si sia mai vista sul grande schermo. Giustamente il regista la definisce l’anima e il cuore del film: è intensa, appassionata, totalmente presa nella doppia drammaticità di studiosa in una missione senza precedenti e di mamma che “vede” il difficile futuro suo e di sua figlia. “Adesso capisco perché mio marito mi ha lasciata!”. I suoi occhioni verdi rivolti verso l’alto, curiosi di conoscere e vogliosi di carpire quanto più possibile dalle movenze e dalla forma di Tom e Jerry, sono un po’ il simbolo del film: i primi piani di Villeneuve sul suo viso ci mostrano i dubbi, le speranze, le paure e gli smarrimenti nelle situazioni difficili, sia sotto l’enorme casco della tuta protettiva, dimostratasi in seguito del tutto inutile, sia quando si accorge che riesce a respirare tranquillamente anche la strana e insondabile atmosfera in cui sguazzano gli eptapodi, una specie di gas amniotico in cui essi si muovono come lenti ballerini ingannevolmente minacciosi.
E se il cerchio di Villeneuve diventa simbolo di Pace, allora prendiamoci tutti per mano, facciamo un girotondo e guardiamoci in faccia. Capendoci, comprendendoci.
Il meraviglioso brano dei titoli di coda:
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