Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Qualcosa non convince.
Non c'è l'alieno, perlomeno quello evoluto, al quale ambivi da sempre, la comunicazione che ti aspetteresti, il Contact che sapevi, di Interstellar manco l'ombra dove brancolano i melliflui marzianoidi.
C'è quel gioco, evocato spesso dal film, a somma zero.
Man mano che la pellicola avanza, tu non perdi e la storia non guadagna.
Un pareggio annunciato, soffuso come le nebbie, indecifrabile come i messaggi, inchiostrato come la scrittura aliena, macchiato di evidenze non evidenti, tradotto come un sanscrito polveroso, che alla fine comunica messaggi ambigui affinché gli spettatori facciano - un po'come i bambini di Povia - ooh!.
Gli alieni evoluti scarabocchiano vetrate cercando di cose che già sanno, insegnando un futuro spiegato, a metà film dicono che fra tremila anni sarà l'uomo a dover salvare loro, e a quel punto potresti anche andare a vederti Silence nella sala a fianco della multi sala che ospita multi film con multi futuri e multi candidati ai multi Oscar.
Tom & Jerry negli Usa, Ficarra e Picone in Italia. Così vengono soprannominati i due amici multitentacolari. Dodici baccelli giganti portano in dodici luoghi diversi di un mondo ancora troppo spesso estraneo a se stesso, la richiesta e, contemporaneamente, l'offerta di aiuto.
Prevarrà la collaborazione, la paura, la curiosità, il timore, la voglia di sapere, il terrore di essere sopraffatti?
Un film già visto. E che si è già visto. In tutti i sensi.
Sia dall'inizio che dalla fine, sia da destra che da sinistra, come la scrittura a due mani evocata da Amy la linguista, dove entrambe (le mani) devono già conoscere tutto il discorso per potersi intersecare (ma qui rischiamo lo spoiler e allora ci tacciamo).
Eppoi le musiche pericolosamente mutuate dai Dead can dance, la fotografia frantumata di nebbia, i movimenti rallentati che reclamano gravità.
Ed un gioco come il mitico Tris di War Games. Un gioco a strategia perfetta, dove, se giochi con criterio, non perderai e non vincerai mai.
Oppure decidere di voler scientemente perdere per assaporare la strada fantastica (non si dice sempre che la vera meta è il viaggio?) che condurrà, comunque, al baratro.
Ecco un buon messaggio veicolato da Arrival: il criterio non come scienza applicata, ma come opzione, emancipazione di quell'arbitrio del quale spesso ci facciamo scudo e paladini.
Ma il meglio del film è il canguro che si chiama “non lo so”.
Quello davvero illuminante.
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