Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Tutto abbastanza bene nella prima parte, gran confusione nella seconda.
Quando, 5 minuti dopo aver finito di vedere un film, devi andare su Wikipedia per leggerne la trama, non è buon segno. Però è proprio quel che mi è accaduto con questo Arrival (da non confondersi con The Arrival, che è tutt’altro). Ora, non sarò un premio Nobel né un proboviro del MENSA, ma di solito i film riesco a capirli, almeno nel senso letterale di quel che le immagini mostrano (il loro significato è altra cosa: per esempio di Von Trier non capisco mai niente, ma credo che il problema non sia solo mio e che il Grande Maestro danese abbia la sua buona dose di responsabilità).
Molti film fs affidano la suggestione del plot ai paradossi temporali e Arrival è tra questi. Solo che in questo caso o avevo una serata-no o si sono spinti troppo in là con i sottintesi, fatto è che non ho capito un tubo. Quando però ho potuto confrontare le mie idee confuse con la descrizione wikipedica (abbastanza chiara), mi sono subito domandato se proprio non c’era modo di rendere la trama più fruibile per i babbei come me. Forse no, ma forse anche sì. Mi rimane quindi il dubbio si tratti di una pellicola intrinsecamente confusa – il che non è accadimento impossibile, nel cinema moderno – e pertanto portatrice di un difetto strutturale. Poiché dalla regia mi dicono trattarsi di un lavoro tratto da un libro, subitaneo mi coglie un dubbio: “sarà mica come Dune?”. In Dune (palla cine-galattica di Lynch dal romanzo di Herbert) non si capisce una fava, ma non è colpa del libro: gli sceneggiatori hanno ritenuto superflue alcune informazioni e spiegazioni, da cui il risultato. Non sarà che Arrival sconta la medesima presunzione e/o faciloneria?
Il filmo ha un’ambientazione limitata a due contesti e quindi non è del genere spara all’alieno e poi scappa. È più del tipo Incontri ravvicinati, ma gli alieni sono resi assai meglio che tramite i consueti omini verdi: c’è un buon senso di alterità, almeno fino a un certo punto. Poi però il misteriosissimo linguaggio alieno (fatto anche da rumori in basso tono suggestivi il giusto) si svela all’esperta un po’ troppo rapidamente perché lo spettatore possa seguirne i progressi (fino a un certo punto si poteva pensare fosse un film sulla Linguistica). Si ha la sensazione che la trama acceleri perché avevano calcolato male i tempi e gli equilibri tra le parti. Poi accelera talmente che io ne ho perso il filo. Alla fine le astronavi, anch’esse suggestive, così elementari da sembrare archeologiche, finiscono di compiere la loro missione, si orizzontalizzano (prima stavano in piedi) e se ne vanno felici. Alla fine delle fini e soprattutto con l’ausilio di Wikipedia si scopre che il vero protagonista della vicenda è il Tempo.
Ci sono cose buone. Arrival propone un’iconografia dell’Alieno innovativa, più fondata sulla tangenzialità del descritto che sull’eplicitazione delle diversità (benché i due alieni siano davvero diversi da noi, più somiglianti ai mostri di Monsters che a E.T.). L’astronave viene resa nota nel suo interno per il minimo necessario, conservando un alto grado di mistero. Non ho paura di usare il termine suggestivo, come si farebbe per un tempio antichissimo di civiltà ormai sepolte. L’atmosfera regge sino alle accelerazioni cui accennavo prima: da quel punto in poi, si salvi chi può. In tutto e per tutto la pellicola si avvale di tre attori: Amy Adams, Jeremy Renner (il sosia brutto di Gerald Butler) e Forest Whitaker (l’attore a suo perfetto agio in qualunque parte). Gli altri sono comparse. Non si capisce bene l’utilità di Renner (che, come fisico teorico, nel film non ha alcun ruolo che non potesse essere svolto assai meglio da un matematico), ma alla fine sì si capisce: è “il principe consorte” dell’impegnativa Adams.
La sensazione finale – anche dopo il supporto informativo esterno – è che sia un film a metà e più per colpa della resa cinematografica che del messaggio originale. Infatti mi sa che mi dovrò leggere il romanzo. Anche questo non è un buon segno.
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