Regia di Denis Villeneuve vedi scheda film
Che un’opera di fantascienza arrivi a tramortire lo spettatore, assicurandosi la sua totale attenzione fin dai primi lirici istanti (che le conferiscono fin da subito un’anima) riuscendo a mantenerla alta e inalterata lungo l’arco dell’intera narrazione, non è impresa da poco. Oggi.
Immagini di essenziale, imponente bellezza ammaliano lo spettatore: profondità di campo, geometria delle inquadrature, potenza dello sguardo (di chi filma), fotografia che predilige i toni plumbei e si serve di sfondi bianchi dalla consistenza fumosa -nei segmenti relativi al contatto alieno- che spingono lo sguardo (di chi osserva) oltre i confini dell’inquadratura, fornendogli la tangibile sensazione di trovarsi di fronte all’infinitamente grande che il quadro, per sua natura ridotta, non può certo contenere ma che i sensi possono, sicuramente, percepire nell’effetto di un dolce costante fluttuare come all’interno di una bolla d’aria o nel denso liquido amniotico del colore del latte.
Opera che se nel contenuto individua la sua ragion d’essere, fa della forma la materia da plasmare, cosicché la sostanza possa rispecchiarsi e ritrovarsi in essa, arrivando a realizzare il suo calzante, ideale, perfetto involucro.
Come il guscio di un uovo.
La maniera (interessante) con cui il film è stato strutturato aderisce al percorso di progressiva consapevolizzazione che investe la protagonista.
Dal caos assoluto generato dalla mancanza di appigli cognitivi in cui la donna inizialmente versa, vagando come in una coltre nebulosa che, poi, è quella che ammanta le creature aliene, al progressivo diradarsi (in senso traslato) delle stesse, via via che la decodificazione dei misteriosi segni condivisi dai laconici visitatori a mò di strumenti di comunicazione (che paiono pennellate d’inchiostro di seppia) si avvia al compimento.
Villeneuve ne ricalca le tappe in un crescendo di tensione, traducendole filmicamente dapprima in immagini dall’andamento lineare, scandite da tempi di ripresa lunghi, dilatati, ad enfatizzare l’eccezionale arrivo sulla terra di forme di vita aliena e, successivamente (nel rincorrere il disvelamento dell’enigma-centro nevralgico della storia), servendosi di un montaggio innervato da ritmi serrati, che destruttura prepotentemente la narrazione, mandandola in cortocircuito.
Complicato se non impossibile, perciò, riprendere il bandolo della matassa.
Ritornare ad un ordine logico. Lineare.
Presente passato e futuro s’intersecano, si mescolano, si sovrappongono.
Fino a fondersi in un tutt’uno e svelare l’agognato arcano.
Se sul piano della sceneggiatura Arrival non è esente da imperfezioni, quali una certa macchinosità nel portare avanti un discorso che si rivela alquanto articolato e complesso, e l’avvalersi di forzature nel dispiego della storia all’insegna di una conclusione che esige il perfetto incastro di tutti i pezzi del puzzle, è su quello squisitamente cinematografico che l’opera si riscatta ampiamente dai difetti che presenta.
Il racconto filmico prende il sopravvento, possiede la forza necessaria per imprimersi nell’immaginario sci-fi che custodiamo da tempo, oramai, e arriva a consegnare questo piccolo trattato esistenziale all’immortalità, come accaduto ad altre precedenti pellicole sul genere.
E le profonde riflessioni che suggerisce, gli importanti interrogativi che solleva e che vanno oltre il film stesso, rendono Arrival l’ennesima preziosa perla nel sempre affascinante esercizio dello scandaglio nell’universo umano, con i suoi tanti ed ancora inevasi perché, che ne accompagnano il cammino fin dalla notte dei tempi.
Il tempo, così come lo conosciamo,
la sua linearità, la progressione degli eventi, l’inestricabile rapporto di causa ed effetto.
E se potessimo piegare il tempo o, addirittura, renderlo circolare, in modo da creare un eterno presente dove il concetto di passato e futuro perdono di significato, dove presente, passato e futuro non sono altro che specchi impiegati per restituire all’unisono la nostra immagine riflessa priva di punti oscuri o zone d’ombra, che tutte le volte possiamo dirci di riconoscere, senza la minima fatica e nessun accenno di esitazione.
Nel tempo circolare (il cerchio in quanto simbolo di perfezione) risiede il segreto della conoscenza suprema, il più grande miracolo salvifico che l’uomo abbia mai potuto rincorrere e desiderare di far suo.
Rappresenta la chiave di volta per tenere finalmente e fermamente in pugno la nostra vita di cui arriveremo a conoscere ogni sua più irrilevante sfumatura.
Cosicché non ci venga negata nemmeno la conoscenza dell’esatto momento in cui esaleremo l’ultimo respiro.
Per non disporre più soltanto del passato sottoforma di memoria, di ricordi/ossessioni che affollano la mente, arricchiscono lo spirito, appesantiscono il cuore.
Per essere finalmente liberi.
Ma da cosa realmente?
La conoscenza è potere, certo, ma conoscere troppo non rischierebbe di procurare preoccupanti effetti collaterali?
Se potessimo rendere circolare il tempo catapultandoci nella fissità di un eterno presente
vivremmo come fino adesso abbiamo vissuto?
faremmo le medesime scelte che finora abbiamo fatto?
sentiremmo ancora la necessità (fisiologica) di sognare, di perseguire uno scopo?
avvertiremmo la mancanza di tuffarci nell'ignoto solo per assaporane il gusto ed insieme il brivido ?
riusciremmo nuovamente a sorprenderci? a meravigliarci?
saremmo in grado di gestire la portata di tale raggiunto traguardo?
e affronteremmo la nostra nuova condizione come un privilegio o una condanna?
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