Forse per la caduta in disgrazia della Weinstein Company, distributore americano del lungometraggio in questione, fatto sta che L’uomo dal cuore di ferro arriva in Italia con più di un anno di ritardo rispetto alla sua normale distribuzione. Diretto dal francese Cedric Jimenez, specialista di film di genere, conosciuto anche in Italia per la regia del non disprezzabile French Connection, il film esce nelle sale appena in tempo per figurare tra gli eventi cinematografici previsti per la celebrazione della cosiddetta Giornata delle Memoria. L’uomo dal cuore di ferro, infatti, altri non è che Reinhard Heydrich, gerarca nazista tra i più potenti e spietati nel perseguire e uccidere gli oppositori del Reich, nonché principale artefice della cosiddetta Soluzione finale, le cui teorie fecero da premessa allo scientifico sterminio della popolazione ebraica.
Sul modello di quanto faceva Operazione Valchiria rispetto al tentativo di uccidere il principale responsabile del secondo conflitto bellico anche il film di Jimenez nasce sulla scia di un fatto reale, in questo caso l’assassino di Heydrich, raccontandone organizzazione e messa in opera all’interno di un film che mescola biopic (nella prima parte, relativa alla formazione e alla scalata al potere del morituro) e war movie (nella seconda, quella dei preparativi che precedono l’attentato), declinandoli con atmosfere e tensione da cinema thriller.
Le somiglianze con il film di Singer comprendono anche le tipologie produttive poiché L’uomo con il cuore di ferro appartiene alla categoria di lungometraggi che privilegiano la riconoscibilità alla verosimiglianza e come tale non rinuncia a mettere in piedi un cast di cultura anglosassone (dal “cattivo” Jason Clarke alla “algida” Rosamund Pilke, ai “romantici” Mia Wasikowska e Jack O’Connell) chiamato a interpretare uomini e donne di diversa etnia. Ciò detto, sul piano dell’intrattenimento L’uomo dal cuore di ferro riesce a soddisfare le premesse da film di facile consumo, coinvolgente quel che basta per farci trepidare sul destino dei buoni e capace di arrivare alla fine senza intoppi, grazie a una linearità – dei caratteri, del montaggio e della messinscena – che può essere un pregio a patto di non concepire lo spazio dell’azione come un contenitore di shock sensoriali. Possibilità che la regia di Jimenez non prende mai in considerazione.
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