Regia di John Lee Hancock vedi scheda film
“Non è solo il sistema, Dick. È il nome. Quel glorioso nome: McDonald's. Diventa qualsiasi cosa tu voglia che diventi. È sconfinato, non ha limiti e sa di... sa di... sa di America”.
McDonald's è la chiesa della ristorazione, aperta tutti i giorni.
McDonald's è famiglia.
McDonald's è l’America.
McDonald's è il mondo intero.
McDonald's, McDonald's, McDonald's… ma come dire, allora, che The Founder non parla (principalmente) di McDonald's?
Né tanto meno parla, detto per inciso, di ristorazione automatizzata e (quel che si direbbe in un non lontanissimo passato) junk food (se non di riflesso).
Questa è la storia di come uomini che presentano caratteristiche simili fra loro - in termini di ambito professionale (ristorazione), esperienze pregresse (severi e ripetuti fallimenti), capacità negli affari (piccole soddisfazioni) e desiderio di riscatto - possono prendere strade anche radicalmente distanti fra loro semplicemente per effetto della umana predisposizione a percepire la malia del Sogno Americano (e di pochi altri fattori). In un caso per niente; nell’altro come credo esistenziale (quasi una ragione di vita).
Questa è la storia (l’ennesima, in assoluto, ma la prima sul 4° simbolo USA, dopo Dio, patria e famiglia) di cosa possa fare il Sogno Americano.
La presa; l’impatto; le conseguenze (affetti collaterali; M Valdemar).
Da uno lato ci sono, difatti, uomini semplici, onesti e con i piedi ben piantati per terra; lavoratori instancabili, che hanno conosciuto non solo l’insuccesso, ma il disastro (l’esercizio professionale negli anni della crisi del ’29 e, in seguito, ai tempi della guerra), senza perdersi d’animo e riuscendo - con caparbia ed ingegno (la ripresa dall’alto della coreografia geometrica del lavoro all’interno di un semplice chiosco è paradigmatica al riguardo) - a risollevarsi ed a fondare la propria piccola impresa di successo (dal perimetro ristrettissimo).
Dall’altro lato c’è un uomo che si è visto sbattere decine e decine di porte in faccia; che subisce abitualmente l’umiliazione dell’insuccesso, ma che non ha mai lottato solo per galleggiare e che, anzi, qualche risultato anch’egli lo ha ottenuto (una brava moglie, la casa, un piccolo spazio nella società). Anch’egli un uomo semplice, nondimeno, più a suo agio confrontandosi con i suoi pari; nella working class, gli ultimi, le minoranze; lavoratori diligenti e fedeli, degni soci (almeno all’inizio) perché, come lui, desiderosi di rivalsa.
Eppure, da una materia prima sostanzialmente simile, il richiamo irresistibile (solo nel secondo caso) dell’American Dream misto a pochi altri casuali fattori (un certo complesso di inferiorità e un po’ di fortuna, che aiuta sempre gli audaci) faranno la differenza: l’American Dream inteso come incondizionata vocazione al capitalismo, come pura intraprendenza imprenditoriale liberista, declinata in tutte le sue possibili accezioni (anche quelle negative), ciò che, solo in USA, rende possibile l’impossibile.
Espandersi oltre ogni limite (asfaltando, inevitabilmente, i propri concorrenti).
Realizzare i propri sogni economici; i propri, per l’appunto.
The Founder è un buon film, fatto bene; compatto e serrato, è confezionato con la giusta competenza da mani capaci di non appesantire mai troppo il discorso con dilungamenti legali-burocratici, oppure troppo tecnico-settoriali (anche se di automazione applicata alla ristorazione e di sviluppi legali, pur sempre, si tratta). Hancock regista (ma già apprezzato soprattutto come sceneggiatore: The Blind Side e Un mondo perfetto su tutti) dirige bene un film che ha, dunque, due pregi intrinseci:
1) raccontare i retroscena della catena di fast food più famosa al mondo e spiegare, in particolare, a chi (e come) si deve imputare la paternità del junk food (il film ha il merito di dare la giusta collocazione ai fratelli McDonald, M Valdemar);
2) ma anche, e soprattutto (per l’appunto), dare il giusto risalto a quel motore scoppiettante ed inarrestabile chiamato Sogno Americano, tanto potente da riuscire a plasmare, nel tempo, la natura dell’uomo:
- la sua ambizione (non una mera vena imprenditoriale, ma la volontà di fondare un impero);
- il suo universo di valori (la fedeltà alla ricetta della tradizione svenduta e sacrificata sull’altare dell’abbattimento dei costi, a discapito della qualità);
- la sua identità (l’appropriazione del nome altrui, come atto estremo, ma necessario);
- il suo destino (il declino da un lato, gloria e successo mondiale dall’altro).
Che poi i risvolti positivi sul lato umano sono tutta un’altra cosa. Ma questa (il film non tergiversa sul punto e a mio avviso, tutto sommato, è un bene) è un’altra storia.
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