Regia di Stephen Hopkins vedi scheda film
Race come corsa, ma race anche come razza: fin dal titolo, il film di Stephen Hopkins (già autore di un altro notevole biopic, Tu chiamami Peter) dichiara apertamente di voler seguire un duplice sviluppo narrativo: quello sulle gesta leggendarie dell’atleta nero Jessie Owens (James), che alle olimpiadi tedesche del 1936 si assicurò ben quattro medaglie d’oro, battendo diversi record, e quella della questione razziale, qui dipanata tanto nella versione dell’antisemitismo in Germania che in quella della segregazione negli Stati Uniti. Pur seguendo un’evoluzione diegetica canonica, nella più classica e un po’ sciropposa tradizione liberal hollywoodiana – tutta patria, famiglia, solidarietà e buoni sentimenti – il film riesce a raccontare con efficacia le contrastanti ondate emozionali suscitate dal corridore (ma anche saltatore in lungo) dell’Alabama, uno degli stati americani a più alto tasso di razzismo: ora eroe nazionale, ora semplicemente “negro” costretto ad aspettare il turno dei bianchi per farsi una doccia. Ma a fare la differenza è anche il modo in cui viene ricostruito tutto il contesto, materia compressa nei 129 minuti di film: la smania di magniloquenza di una nazione, la Germania, che – attraverso il cinico pragmatismo del ministro Goebbels (Metschurat) – punta sullo sport come occasione di colossale propaganda politica, affidando al talento di Leni Riefenstahl (van Houten) il compito di riprendere le gesta degli atleti ariani, ma anche il rapporto tra Owens e il suo coach Larry Snyder (Sudeikis), le origini povere del protagonista, la richiesta di boicottaggio delle olimpiadi e i rapporti ambigui del costruttore Avery Brundage (Irons) con i nazisti. Quanto basta per parlare soprattutto al cuore dello spettatore, chiedendogli implicitamente di chiudere un occhio su qualche eccesso di semplificazione.
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