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Sole cuore amore

Regia di Daniele Vicari vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Sole cuore amore

di amandagriss
8 stelle

 

 

La nostra vita

 

In coda ai titoli di coda:

"Questo film è frutto della libera creatività dell'autore.
Il riferimento a fatti di cronaca, autonomamente elaborati e reinterpretati, è da intendersi come doveroso tributo a quelle innumerevoli persone, per lo più sconosciute o dimenticate, vittime di condizioni di vita e di lavoro che si vanno rivelando sempre più spesso spietate e insostenibili."

 

C’è un periodo nella nostra esistenza, quando si è ragazzini e ancora tanto ingenui, sognatori, entusiasti e carichi di aspettative verso la vita ed un futuro che si concepisce, in linea di massima, roseo e foriere di lieti eventi, in cui sapersi e dirsi realizzati, in cui crediamo bastino le cose più semplici e più naturali -una ridente giornata di sole, qualcuno d’amare e da cui ricevere amore- per affrontare indenni le sfide ardue che ci riserva la vita.

E poi un giorno ci si sveglia dal sonno e bisogna fare i conti con la dura realtà.

E le 3 parole “sole cuore e amore” risuonano alle orecchie come una sciocca, perfino irritante rima infantile.

 

Daniele Vicari, dopo Diaz, si rituffa nel cinema d’impegno civile e confeziona una storia sul nostro complicatissimo presente, sulla tragica quotidianeità di gente comune, senza volto senza un nome, che finisce per distruggere se stessa consumandosi/spegnendosi lentamente pur di conservare il proprio posto di lavoro (sottopagato al nero, ottenuto accettando condizioni inaccettabili), unica possibilità di garantirsi un’onesta e dignitosa sopravvivenza.

L’approccio alla materia affonda le radici nella tradizione neorealista del cinema nostrano per venire poi filtrato dalla sensibilità artistica dell’autore, che scaraventa la mdp sulla sua protagonista Eli (una struggente Isabella Ragonese), marcandola stretta e senza sosta, dall’inizio alla fine, cogliendone le sfumature del volto, le espressioni di un giovane viso sciupato, stravolto dalla fatica, dalla mancanza di sonno, dall’avvilimento di una situazione lavorativa (di sfruttamento) che ella sa (che il suo fisico provato sa) non poter più sostenere, consapevole di trovarsi stritolata in un massacrante meccanismo succhiasangue da cui vorrebbe tirarsi fuori prima di soccombere definitivamente.

Ma le responsabilità derivanti dalla scelta sentita e legittima di crearsi una famiglia, mettere al mondo e crescere dei figli (lei, a cui sono mancati gli affetti familiari) non le permettono di assecondare il suo ‘capriccio’, quello, cioè, di continuare a vivere.

 

 

Accanto al calvario quotidiano di questa moderna madre coraggio, centro nevralgico del film, Vicari fa scorrere una vicenda secondaria (di minor impatto emotivo), speculare seppur con delle differenze, indispensabile principalmente per imprimere il suo sguardo alla storia che sta raccontando, mosso dall’intenzione di definire, rendere leggibile, attraverso un discorso per sole immagini, l’esistenza trafelata della donna.

E in secondo luogo, per tracciarle probabilmente (dato che la vita raramente lo consente) un destino alternativo, forse meno spietato di quello a cui è andata incontro, qualora non avesse voluto o non si fosse presentata l’opportunità di metter su famiglia. 

Sceglie, quindi, la strada della danza moderna sperimentale, che oggi, con sempre maggior frequenza, pare stia calcando con successo le scene del palcoscenico classico come quelle di discoteche, night club, feste di piazza o gallerie d’arte, e che s’incentra sul potenziale plastico del corpo, la sua elasticità, il suo grado di resistenza agli stimoli (estremi) indotti.

Ne vengon fuori performances deliranti, vorticose, rutilanti, intervallate da brevi momenti di quiete che non spezzano la tensione bensì la nutrono sottopelle; movimenti a scatti, magmatica lentezza e di nuovo riprese accelerate, convulse, proprio come lo stile di vita che la protagonista si è trovata costretta ad abbracciare.

E a tradurre in suono questo valzer al cardiopalma è, non a caso, la musica jazz, tagliente spigolosa e mai rassicurante, dal ritmo sincopato, irrefrenabile, fatta di dissonanze e interruzioni, di note fuori posto, di cambi di rotta imprevisti come di sfinenti giri a ripetere se stessa all’infinito. Contraddistinta da viaggi di note improvvisate dei quali non si conosce la destinazione né il tempo impiegato per percorrerli.

 

 

Un film doloroso, almeno per chi nel guardare il tribolato vissuto di questa giovane donna riconosce se stesso, ritrovando la familiare sensazione di non riuscire a liberarsi di quel peso che opprime il petto rendendo perennemente faticoso il respiro.

Rivedendo la sua personale, anonima via crucis sulle strade accidentate di un’esistenza che viene da chiedersi, nonostante si continui a trovare la forza di sorridere, se ancora vale la pena di vivere.

E quale, il prezzo da pagare per le (sacrosante) scelte che abbiamo compiuto.

 

 

Arrivare a morire per le stesse cose che ci hanno fatto desiderare di vivere è comprensibile, nobile, sicuramente onorevole,

ma non così,

non in questo modo,

non a queste disumane condizioni.

 

 

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