Regia di Mario Monicelli vedi scheda film
Dopo il trionfo ottenuto qualche anno prima con La ragazza con la pistola, Mario Monicelli viene cooptato in un prodotto d’esportazione coerente con la grandeur del periodo, così come potevano esserlo il suo Casanova ’70 o certi lavori di Dino Risi con l’istrione Gassman e finanche le puntate estere di Sordi. Sin dal titolo, il film fa leva sull’orgoglio italiano nel mondo: un cibo storicamente associato ad un consumo gustoso ed economico, celebrazione dell’antico ingegno nostrano fondato sul rifiuto dello spreco, esuberante dimostrazione di opulenza popolare. Nella fattispecie, l’insaccato è il regalo che i colleghi hanno donato ad una quarantenne napoletana in procinto di sposarsi col suo uomo, che dopo aver cornificato la prima moglie ha abbandonato la lotta sindacale e s’è trasferito negli States. In base ad una legge che ne vieta l’importazione, la mortadella viene fermata dalle guardie dell’aeroporto generando una catena di varie assurdità.
Insomma, è chiaro: la mortadella è un MacGuffin, un pretesto per parlare delle ipocrisie del Grande Paese, accogliente e insidioso, infido e opportunista. Non a caso viene consumata circa a metà della storia dalla protagonista affamata in compagnia delle guardie. Tutto il resto gravita attorno alla capacità di corruzione in grado di perpetrare la grande democrazia americana: se la protagonista diventa esageratamente una mezza celebrità delle libertà civili, il fidanzato da par suo ha rinnegato gli ideali politici tendenti al rosso per concedersi le gioie del capitalismo. Più del cinico giornalista di William Devane, è Gigi Proietti il cattivo, l’incoerente e viscido voltagabbana col sorriso ambiguo.
Tuttavia il film non decolla e Monicelli sembra esserne costantemente consapevole, dirigendo di malavoglia e senza ritmo laddove avrebbe potuto instillare la sardonica cifra del suo cinema migliore, lasciando intuire allo spettatore le potenzialità inespresse di questa narrazione su un’integrazione fallita. Sophia Loren, incarnazione dell’Italia e all’apogeo della consapevolezza divistica, gioca in totale autonomia, col talento congenito della commediante a proprio agio di fronte alla macchina da presa (abile anche nel canto: in un pezzo molto agescarpelliano, canta la propria storia d’amore provinciale sulle note dell’embrionale 4 marzo 1943 di Lucio Dalla), ma irrimediabilmente distaccata dal regista che non riesce a modificare la sua immagine così come accadde e sarebbe accaduto per Gassman, Vitti, Sordi. La mortadella è anche il racconto del loro mancato discorso amoroso.
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