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La battaglia di Hacksaw Ridge

Regia di Mel Gibson vedi scheda film

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La recensione su La battaglia di Hacksaw Ridge

di lamettrie
9 stelle

Un grandissimo film (giustamente) antimilitarista. Lo è per la tecnica e soprattutto il realismo delle scene. Lo è per il valore del messaggio di Desmond Doss, l’obiettore di coscienza protagonista di una storia vera.

La sua coerenza ai valori della fratellanza e dell’amore universale è più forte di ogni pressione, di ogni perdita di opportunità, di ogni ricatto, di ogni umiliazione, di ogni violenza subita.

L’assurdità del bellicismo, sempre fomentato dalla propaganda assassina dei guerrafondai, è efficacemente contestata: chi mostra la guerra d’attacco come un bene per difendere qualcosa è smentito. E la guerra americana contro i giapponesi lo fu: nonostante la martellante, falsa e ciononostante vincente propaganda, gli americani fecero di tutto per provocare i giapponesi, e per avere un pretesto per entrare in una guerra alla cui fine trassero vantaggi geopolitici di controllo sulla maggior parte del mondo. Non poco.

L’assurdità inaccettabile della guerra trapela in modo splendido nel confronto transgenerazionale: dai racconti del padre alla realtà dei figli. Ma soprattutto dal racconto del padre reduce emerge lo scarto tra l’inganno di chi mostra la guerra come necessaria e tutto sommato facile, e invece la realtà.

Stupenda, poi, è la resa dell’esperienza della fede religiosa. Potrà apparire strana all’ateo, eppure è storia vera: la fede religiosa è stato l’unico alimento che ha permesso a questo obiettore di salvare vite umane in quantità inimmaginabile, dandogli per di più la forza di fare cose impensabili. Stupendo è il feedback (ci si scusi l’uso di queste espressione orribile, come tante di quelle inglesi inflazionate da noi), dei commilitoni che sin lì l’avevano odiato, deriso, e perfino picchiato. Pur non condividendo (appieno o per nulla) la sua fede, costoro, i beneficiari della sua opera salvifica, straordinaria, hanno dovuto rendergliene testimonianza: indimenticabile la scena in cui l’attacco è ritardato, pur contro le esigenze della guerra, per permettergli di terminare la preghiera. La sua fede è diventata un motivo di speranza per tutti, anche per chi non la condivide, perché ne aveva visti gli effetti incarnati. In un contesto in cui la mirabile regia di Gibson (che sin lì in cinque prove non ha mai perso ancora un colpo, per dimostrare una maestria che lo affianca ai giganti del livello supremo, peraltro non ancora sufficientemente riconosciutagli), mostra tutta la disumanità, il terrore e l’orrore esistenziali che, controvoglia, coinvolgono ogni persona impegnata in guerra.

Perché, infatti, bisogna parlare anche dei meriti tecnici (Gilbert ha giustamente vinto l’Oscar per il montaggio): le scene di guerra sono sublimi, tra le miglior mai girate. Spiace vedere tanta macelleria: ma la guerra è questa: disonesto è che edulcora tale realtà, per vendere meglio il bellicismo che piace tanto a molti imprenditori. E di recente abbiamo visto sul caso ucraino (peraltro, guarda caso, quasi sparito dall’attenzione dei media occidentali dopo quattro mesi, quando la guerra appoggiata dagli occidentali non serviva agli interessi economici di pochi privati, al netto degli eccessi della terribile violenza russa), un’esibizione della necessità della guerra, e la contestazione del pacifismo, purtroppo: pagata da chi dalla guerra ci guadagna; ben lontano dalle prime linee, ma ben vicino ai fatturati pagati dallo stato, e quindi dai contribuenti tutti.

La bestialità della violenza americana è ben denunciata: si vede sia dalla follia del padre (che a sua volta l’ha ricevuta dalla prima guerra mondiale, e non ce l’aveva affatto di suo!), che la insemina educativamente nei suoi figli (con esiti terribili: sono sull’orlo di ammazzarsi a vicenda!), sia dalle frasi che i soldati dicono a sé stessi per motivarsi, insultando dei nemici e degli stranieri che in realtà non hanno alcun motivo serio reale per detestare. Non c’è moralismo alcuno: giapponesi e americani sono sullo stesso piano, ovvero dei vinti, che sono stati sconfitti dalla logica della politica di ricchi criminali che li usano come carne da macello (nel caso giapponese si nota la follia ideologica del fanatismo imposta culturalmente), rifiutandosi però di esporsi in prima persona, e lasciando così che altri si scannino, vedendo e soffrendo il peggio di cui ogni essere umano può fare esperienza. Che Gibson mostra in modo (per certi versi, purtroppo) inappuntabile, come già detto.

Del resto, la visione religiosa della guerra non è assunta aprioristicamente come buona. Nelle scene iniziali, infatti, certi salmi vengono recitati a supporto di un aiuto divino che porti la vittoria alla guerra: ma si capisce che tale giustificazione della guerra santa è disumanizzante. Infatti il protagonista emerge perché si rifiuta ad ogni forma di violenza, non certo perché strumentalizza la religione ai fini della vittoria, personale o collettiva.

Stupenda, in questo contesto di sofferenza, è anche la storia d’amore: a distanza, più forte di tutti gli ostacoli, non è retorica perché è basata sulla purezza di principi morali profondi, che impongono scelte controcorrente, e che infatti permettono energie tali da resistere ad ogni distanza (e il film ha anche il merito di mostrare ogni distanza possibile, anche la più lacerante, e in modo aderente a ciò che realmente accaduto).

L’aspetto estetico, poi, è curato senza lasciar nulla al caso anche nella scelta del cast. Tanti interpreti sono molto belli, pur mescolati in modo intelligente alla norma. Sia quelli femminili (la madre, Rachel Griffiths, vittima delle peggior violenza del marito reso psicopatico dalla guerra: realtà terribile, e mirabilmente mostrata), come la indicibilmente bella Teresa Palmer; sia quelli maschili, come Luke Bracey e Sam Wortington.   

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