Regia di Terence Fisher vedi scheda film
Il primo grande remake della Hammer, e già si sfiorava il capolavoro. Peter Cushing probabilmente è stato il miglior Barone Victor mai proposto sul grande schermo. Isterico, tenace, capèstro, completamente folle. La sua spalla iniziale, il Paul Krempe di Robert Urquhart, fomenta una chimica azzimata che si dipana in un climax laido e diabolico. A differenza del romanzo, dove il protagonista esprimeva repulsione verso la truce entità “partorita” dal suo subconscio, in questo racconto apocrifo Victor non cela un orgoglio ostentato in seguito ai progressi che lo porteranno a generare la Creatura, rappresentata quale un pastiche prodotto dall’assemblaggio armonico di parti eterogenee: le mani di uno scultore, gli occhi estratti dalla carcassa di un volatile e il cervello detratto da un genio. L’amalgama delle componenti fa da riflesso alla personalità sociopatica di Frankestein: manifesta apertamente i propri dilemmi, liquidando la morale e i pregiudizi religiosi della comunità. Terence Fisher e lo sceneggiatore Jimmy Sangster rispolverano quindi un soggetto ormai ammuffito focalizzandosi maggiormente sulla sospensione dell’incredulità e l’eloquenza emotiva delle maschere. La resa cosmetica, analogamente sagace, trova linfa vitale nel maquillage agghiacciante intensificato da un uso innovativo del technicolor. Preponderante nelle tonalità di Jack Asher, dalle sfumature ardenti, la saturazione delle tinte si imponeva su immagini repellenti, questa volta sfoggianti fotogrammi corrosivi, ostentatamente espliciti; una parvenza esuberante, scardinante, che esplodeva in un patchwork truculento (allestito dal mago del trucco Phil Leakey), gestito impeccabilmente dalle inquadrature icastiche del regista. Il mostro, ovviamente, venne splendidamente interpretato da Christopher Lee: il grande attore britannico trasmette una condizione di disagio esistenziale in modo spasmodico, attraverso una fisicità imponente, i gemiti inarticolati e le indubbie abilità mimetiche. Meno d'effetto invece la partecipazione di Hazel Court (Elizabeth), misurata quanto basta sebbene non particolarmente incisiva, la cui scena sembra infatti essere stata rubata da Valerie Gaunt (la governante Justine), procace amante del Barone. Il budget modesto non ha inoltre impedito alla produzione di girare il film in set dalle opulente decorazioni, senza tralasciare una colonna sonora pesantemente orchestrata ma ugualmente gratificante (la partitura di ottoni e archi di James Bernard aumenta tangibilmente la causticità della storia), lontana da quella sobrietà che in passato cercava di punteggiare momenti e segmenti salienti. “The Curse”, al netto dei difetti veniali (dovuti ad alcune caratterizzazioni non costantemente efficaci), rimane una pietra miliare del genere, in grado di influenzare e plasmare parecchi standard del cinema gotico successivo.
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