Regia di Hannes Holm vedi scheda film
Ove va per i 60, è fresco vedovo ed è appena stato costretto ad andare in pensione. Le sue uniche soddisfazioni vengono dal trattare male vicini e conoscenti che non rispettano le regole o non sanno arrangiarsi da soli. Tutto ciò che vuole ormai è solo farla finita, ma ecco che la burrascosa amicizia con i nuovi dirimpettai gli sconvolge la vita.
A man called Ove è uno di quei rari film che vanno rivisti più volte per poterne comprendere realmente la potenza. È una fiaba, sostanzialmente, una fiaba dalla morale moderna e sofisticata, capace di divertire, intrattenere e commuovere. Ma, come ogni fiaba, ricerca il suo linguaggio nelle parole più semplici e propone un andamento narrativo piuttosto prevedibile, costellato da note di ingenuità e di patetico; al di là di questi evidenti limiti, o forse proprio grazie a questi, si capisce perché il film di Hannes Holm – classe 1962 e ormai una decina di regie cinematografiche alle spalle – è stato scelto nella cinquina dei candidati all’Oscar come miglior film mondiale del 2017. Pur non aggiudicandosi né questo riconoscimento, né quello per il miglior trucco, la pellicola di Holm ha parecchio da dire: ci parla con toni nostalgici e agrodolci di un mondo che non c’è più e che a tutti gli effetti ci manca, quello nel quale ci si arrangiava con quel poco che c’era a disposizione, le cose vecchie si aggiustavano e non si buttavano per ricomprarle nel nuovo modello, un mondo nel quale l’iniziativa concreta, l’applicazione materiale erano necessità quotidiane, lontano anni luce dall’era della virtualità e delle relative distanze incolmabili fra persone prossime. Ove è il vicino di casa che cerca la distanza, che saluta di sfuggita e con un mugugno, ma che all’occorrenza, quando serve, dà sempre una mano; è quella persona che sa mettere le mani un po’ dappertutto, che rispetta in maniera scrupolosa anche i più minuscoli cavilli della legge e che si aspetta un atteggiamento identico dagli altri. Rimanendo naturalmente deluso. Il solo campo in cui non sa muoversi è quello sentimentale: ma ci pensa Sonja a farsi avanti anche per lui; solo l’errore umano di un autista di autobus imprudente o distratto distrugge il sogno d’amore della coppia. Inevitabilmente sfiduciato nel genere umano, Ove ha tanto da dare, ma nessuno interessato a ricevere, a parte un gatto randagio che lo prende immediatamente in simpatia e una vicina iraniana capace di non prendersi abbastanza sul serio da offendersi alle male parole che Ove pronuncia ormai con fare distratto, per abitudine. Peccato per la sequenza del figlio e i successivi 20-30 minuti: tutto inverosimile ai massimi livelli e logicamente inconcepibile (una donna incinta che affronta un lungo viaggio in bus, un paralitico che si gira e sorride a suo piacimento, una scala di legno di vari metri di lunghezza costruita in una sola notte, per giunta di diluvio…), carico di pathos all’eccesso (overdramatization), ma d’altronde il film si chiude con uno di quei finali commoventi che raramente si dimenticano, praticamente perfetto nella sua bellezza, lineare e rigorosissima. Varrebbe esso solo il prezzo del biglietto per tutto il film: e non solo per il gesto ricorrente del dito di Sonja stretto nella mano di Ove, anche sul treno che conduce all’aldilà; anche per i seguenti secondi, quelli conclusivi, in cui la bambina (le giovani generazioni) ritorna sui suoi passi per chiudere il cancello come indica il cartello, a dimostrazione che qualcuno ha finalmente imparato la lezione di Ove, che la sua esistenza non è stata del tutto inutile. Sceneggiatura: Holm, da un romanzo di Fredrick Backman; interpreti: Rolf Lassgard, Bahar Pars, Filip Berg, Ida Engvoll, Borje Lundberg. 6,5/10.
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