Regia di Ken Loach vedi scheda film
Loach ha il grande merito di raccontare una storia se non reale almeno realistica senza metafore, senza fronzoli, una storia sicuramente potente, una storia nuda e cruda così come accade quotidianamente in tante parti del mondo. Sembra che il tempo non sia passato per Ken Loach.
Quando un regista sa essere così efficace, sembra un paradosso, riesce a centrare l’obiettivo perfino senza immagini, così come succede nei titoli di testa, dove questi passano su fondo nero, buio totale, e lo spettatore ascolta soltanto il dialogo tra il povero protagonista ed una “professionista della sanità”, non una dottoressa o un’infermiera, no, semplicemente una “professionista”, una extraterrestre nel mondo dei bisogni. In pratica una voce asettica e cantilenante che porge al malcapitato una serie di quesiti di un lungo formulario secondo cui se raggiungi un certo punteggio ottieni il sussidio, altrimenti ne resti senza. Come una lotteria, un concorso a premi. Perché nel buio dello schermo? Perché la burocrazia è cieca, non vede nulla e non vede gli individui davanti a sé. E nel buio della burocrazia di Stato solo due voci: chi ha bisogno e chi calcola i punteggi delle risposte. Ma chi può mai sconfiggere una burocrazia tanto ostile al cittadino? E cosa si nasconde dietro un termine così semplice e nello stesso tempo così mostruoso come un muro insormontabile, rappresentato sì da persone ma nello stesso tempo impersonale e inestricabile come un labirinto dove è molto più facile perdersi che trovare la via d’uscita? Lo Stato si nasconde dietro la “burocrazia” mentre l’uomo comune si rivolge ad esso per trovare risposte e ristoro uscendo in maniera forzata dalla giungla della società del lavoro, perdendo dignità. È una lotta impari, tra un cittadino ed un mostro a più teste.
Se poi invece provi smarrimento e incapacità di dialogare con le istituzioni burocratiche puoi sempre provare a telefonare per avere ulteriori chiarimenti ma passi un’ora e mezzo con la ineffabile musica di Vivaldi che non riesce neanche a farti compagnia tanto è venuta a noia, con la suadente voce del call center che ti dice di non riattaccare per non perdere la priorità acquisita. Ma acquisito cosa! Allora ti consigliano di compilare i moduli in internet, di cui il povero Daniel Blake non ha alcuna dimestichezza e rischia pure che scadendo il tempo messo a disposizione dalla procedura digitale ritorni al punto di partenza. Un gioco dell’oca dove vince sempre quel mostro a più teste chiamato burocrazia. Perché il gioco è perfidamente semplice e premeditato: se Daniel Blake ha diritto al sussidio per malattia deve dimostrare che non può lavorare e, se nel frattempo non lavora, non può chiedere il sussidio per disoccupazione se non dimostra che il lavoro lui lo sta cercando e non lo trova. Anzi, colmo del colmo, gli viene formalmente chiesto di dimostrare che il lavoro lo stia cercando davvero! Ma come, non si sa. È una spirale con tranello finale, in cui a furia di moduli, rinvii, sentenze, ricorsi, il malcapitato si arrende e rinuncia.
Nel frattempo il valente e malato carpentiere chiamato Daniel Blake conosce un’altra sfortunata vittima di questa società, Katie, sballottata dalle istituzioni pubbliche da Londra a Newcastle, dove perlomeno le hanno procurato un appartamento per lei e i suoi due figlioletti ma non il necessario di che vivere. Solo la generosità e l’altruismo di un piccolo uomo calpestato e dimenticato dallo Stato come Daniel la sorreggerà materialmente e mentalmente, dandole continuo sostegno morale, iniettandole fiducia e ottimismo per il futuro ed anche supporto economico, pur se limitatissimo date le sue condizioni economiche. E proprio a due scene madri centrate sulla giovane mamma dobbiamo i due momenti di maggiore impatto emotivo, che non possono lasciare lo spettatore insensibile: quando non resiste e apre un barattolo di cibo e vi si avventa per placare la fame che la attanaglia, avendo esaurito tutto per non far mancare nulla ai piccoli e quando nella commovente sequenza finale legge il promemoria che Daniel si era preparato per la commissione che avrebbe dovuto decidere sui suoi ricorsi.
Il cinema di Ken Loach è fatto di cuore, è fatto col cuore di chi combatte ancora oggi, nel XXI secolo, la lotta di classe e chi pensa che sia fuori tempo, che lui sia solo un nostalgico comunista, sbaglia, più che mai. E non perché non ci siano più le condizioni politico-sociali degli anni in cui si discuteva di classi sociali, ma semplicemente perché in questi tempi difficili molti cittadini stanno perdendo i diritti che si erano faticosamente guadagnati e lui è forse l’ultimo giapponese del cinema che tra commedie e drammi racconta le storie degli ultimi: da La ‘parte’ degli angeli il cui finale apriva alla speranza di un futuro migliore, è passato all’episodio storico irlandese con Jimmy's Hall - Una storia d'amore e libertà per approdare oggi alle sventure di Daniel Blake, dopo i tanti film di forte militanza politica girati tanti anni fa.
Forse si potrà accusare Loach di mostrare un personaggio fin troppo buono, troppo generoso, che evita la tanto malfamata lotta tra poveri, che svuota se stesso, pur nella battaglia personale, per aiutare la persona che il destino ha fatto conoscere; forse gli si potrà imputare di separare troppo semplicisticamente i poveri e buoni da un parte e i benestanti e cattivi dall’altra, ma senz’altro ha il grande merito di raccontare una storia se non reale almeno realistica senza metafore, senza fronzoli, una storia sicuramente potente, una storia nuda e cruda così come accade quotidianamente in tante parti del mondo. Al limite metafora è lui, Daniel Blake, perché Daniel può essere ognuno di noi o il nostro vicino. Perché, come dice e come scrive nel suo promemoria finale, “Io, Daniel Blake, sono un cittadino, non un numero, non un puntino sullo schermo e se perdi il rispetto per te stesso sei finito!”. E io, uscendo dalla sala, mi sono sentito davvero Daniel Blake. E dovremmo esserlo tutti.
Sembra che il tempo non sia passato per Ken Loach, sempre uguale a se stesso come ai tempi di My Name Is Joe, Paul, Mick e gli altri, Bread and Roses, Piovono pietre, Riff-Raff - Meglio perderli che trovarli, Il mio amico Eric e così via. La strada che lui tracciò anni fa la persegue senza tentennamenti, film dopo film e sempre con grande efficacia, sempre con opere di notevole incisività e spesso con attori che paiono appena pescati dalla gente di strada, aumentando così l’effetto umano ed emotivo delle storie raccontate, anch’esse pescate dalla vita ordinaria. È un grande film anche questo e gran merito, come al solito, va al suo fidato sceneggiatore Paul Laverty che scrive uno spartito che non sbaglia una nota, alternando alla drammaticità di tante scene dialoghi così divertenti e ironici che a volte si ha l’impressione di assistere ad una commedia di satira su politica e costume, il tutto recitato con grande partecipazione dal perfetto Dave Johns, un attore televisivo che non sarà facile dimenticare, oltre alla ottima Hayley Squires anch’essa di derivazione televisiva. L’assenza del commento musicale acuisce poi la tragedia di quest’uomo solo, che da solo cerca di combattere cercando di guardare negli occhi lo Stato, che però è cieco e lo ignora completamente, lasciandoci impietriti e commossi nel finale. E se l’autore ha scolpito nel titolo il nome del protagonista, è stata una scelta non senza motivo, essendo la persona, l’uomo insomma, al centro della sua attenzione, l’argomento essenziale e primario delle sue considerazioni.
Come tutti gli schiavi si alzavano per urlare “Io sono Spartacus!”, anche noi siamo tutti Daniel Blake!
Lunga vita a Ken!
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta