Regia di Jeff Nichols vedi scheda film
Una storia d'amore pura e totalizzante messa in croce dalle circostanze, dal perbenismo, dall'intolleranza che aveva radici profondissime ancora irraggiungibili nell'America bigotta e razzista di fine anni '50. Un bel racconto con cui il bravo Nichols rifugge falsi sentimentalismi e melodrammaticità sin troppo tipiche della produzione hollywoodiana
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Inizio sfolgorante sul volto imbarazzato di una giovane donna, poi su quello del suo uomo: poi la prima timidamente comunica al compagno di essere incinta, e l'uomo gioisce di un sentimento interiore che non ha bisogno di fragori per dimostrare la sua autenticità: è il segno distintivo della genuinità della felicità che, provenendo dal cuore, rimane sottotono a livello di manifestazione superficiale, ma viva dentro più di ogni altro sentimento esteriorizzabile.
Segue, senza nessuna enfasi, ma sincero e determinato, un matrimonio veloce per sistemare una situazione di clandestinità che nel 1958, nell'America puritana, non avrebbe potuto essere tollerata.
E poi il dramma senza fine: Mildred infatti è una donna di colore, Richard Loving (un cognome che più pertinente non si potrebbe immaginare) un bianco: il loro matrimonio riparatore non è permesso dalla legge della Virginia, e la coppia viene addirittura condannata ad un anno di detenzione. Viene loro lasciata la possibilità di uscire nel caso diano il consenso a lasciare lo stato.
La cosa avviene, ma la battaglia per la rivendicazione dei propri diritti, a quel tempo tutt'altro che inalienabili, li occupa per decine di anni, lungo un calvario contrassegnato da un atteggiamento di coppia composto e dignitoso che li eleva ad un livello vicino ad un percorso di santità.
Ed è bravissimo Jeff Nichols - il cineasta sensibile di Take Shelter e di Mud - che nell'ambito di un film dall'avvio tradizionale che punta sulla descrizione di un contendere sopraffatto dal pregiudizio generale e dilagante, sa puntare all'emozione sincera, e riesce a tenere bassi i toni della denuncia, senza fare o alimentare retorica inutile, attenendosi ai fatti, facendo emergere la dignità di un comportamento naturale che rende i presunti colpevoli e fautori dello scandalo, persone eroiche che rivendicano un corportamento che solo molti anni dopo verrà considerato sacrosanto ed inviolabile.
Bravissimo, insomma, a depurare una vicenda di per sé dispensatrice di facile emozione, oltre che di comprensibile sdegno, di ogni melodrammaticità inutile che altrimenti avrebbe caratterizzato e probabilmente svilito il senso autentico di un sacrifico dettato da un amore profondo ed incondizionato a condizionamento reciproco totale.
Poca enfasi dunque, per una denuncia che si attiene ai fatti e si sviluppa in un contesto scenografico efficacemente ricostruito.
Nomination meritata per l'ancora poco nota (da noi) Ruth Negga (ma la ricordiamo in "12 anni schiavo", di medesima argomentazione di fondo, così come nell'intenso "Iona" visto a festa Mobile al 33° TFF); ma pure l'ottimo Joel Edgerton non le è da meno, e l'essere completamente ignorato dall'Academy risulta una circostanza infelice e poco pertinente.
Nel corso del film quasi ci preoccupavamo di non vedere per nulla l'attore feticcio Michael Shannon, ma il cruccio viene a svanire con una sua quasi improvvisa apparizione fulminea, che permette comunque all'attore istrionico ed inconfondibile di lasciare la sua impronta ruggente in mezzo ad una storia che indigna certo, anche se narrata con un contegno ed un controllo quasi fuori luogo, specie se raffrontato al dolore causato in tutti gli anni della lunga contesa giuridica alle vittime di questa vera e propria persecuzione.
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