Regia di Clint Eastwood vedi scheda film
Oggi siamo sempre più inclini a definire eroi quelle persone comuni che nel loro vissuto quotidiano finiscono per compiere gesti fuori dell’ordinario, in grado di rovesciare in positivo le sorti di situazioni venutesi a creare altrimenti disastrose e devastanti, apparendo agli occhi ammirati dell’opinione pubblica come i nuovi paladini del bene sociale, i difensori a spada tratta della gente comune, di chi ha trovato la salvezza quando credeva non vi fosse più nulla da fare né da sperare.
Queste ‘anomalie’ comportamentali possono incontrarsi sul luogo di lavoro, verificarsi nel consueto esercizio delle proprie funzioni quando esse vengono onorate fino in fondo, in piena coscienza, con onestà, consapevolezza e scrupolosità. Ed essere percepite come delle rarità più vicine al miracolo che alla normale amministrazione, soprattutto quando l’attuale sistema socio-lavorativo è oramai alla deriva, sempre più degradato nei princìpi umani, nei valori morali, nelle responsabilità che ciascun ruolo impone, di primo piano o marginale che sia.
E certo, la crisi economica non può rivelarsi, come invece accade sempre più frequentemente, l’alibi perfetto affinché si faccia del proprio mestiere una pagliacciata senza senso ed importanza, affinché ci si comporti da cialtroni in divisa, svogliati e demotivati, divenendo degli irresponsabili disamorati che si arrogano il diritto di compiere scelleratezze di ogni sorta visto che oramai tutto è perduto, che i diritti latitano e i doveri si moltiplicano, che gli stipendi sono ridotti all’osso e il rispetto per la propria mansione, compresa la fatica (fisica e mentale) che comporta, è finito giù nelle fogne insieme ai bei discorsi sul lavoro che nobilita l’uomo, sulla sua sacralità, sul dedicarsi ad esso abbracciando una missione piuttosto che una croce.
Oggi, le nostre vite, la nostra sfera lavorativa, ad ogni latitudine, si popolano sempre più di personaggi simili all’italiota comandante Schettino piuttosto che al pilota dei voli di linea americani, con un passato nell’aereonautica militare yankee, Sullenberger, balzato agli onori della cronaca u.s.a e mondiale con il nomignolo/vezzeggiativo Sully, per essere riuscito, nel 2009, nell’incredibile impresa di trarre in salvo l’intero equipaggio del suo aereo facendolo ammarare sul fiume Hudson, evitando lo schianto, l’inabissamento senza via e possibilità di fuga, l’inevitabile tragedia.
Se l’esito della pericolosa manovra salvavita di cui si è reso responsabile, giudicata dai periti del settore avventata ed evitabilissima, fosse stato fallimentare, per la città di New York, ancora sotto shock in seguito all’attacco subìto l’11 settembre di nemmeno 10 anni prima, sarebbe risultata l’ennesima ferita inferta al suo cuore sanguinante: rivivere ad occhi sbarrati l’incubo delle Twin Towers avrebbe significato fare i conti con una maledizione calata sugli americani impossibile da scacciare via. E invece Sully, guidato dalla sua esperienza, ma anche dalla sua indole, dal suo istinto, dal suo dna di cittadino americano consapevole, compiendo il proprio lavoro ha impedito che la ferita mai veramente guarita si riaprisse del tutto, esorcizzando la paura, l’angoscia, il terrore paralizzante, l’incertezza del domani.
L’integrità morale, il senso di responsabilità, la compassione e l’umiltà, virtù fondamentali perché l’uomo brilli in dignità, sono alla base di questo nuovo, emozionante (indispensabile se non necessario per le nostre coscienze malate) capitolo-prezioso tassello da aggiungere alla vasta filmografia di uno degli ultimi ‘grandi vecchi’ del grande, monumentale cinema americano.
Accanto a Robert Zemeckis con Flight e Steven Spielberg con Il Ponte delle Spie, Mr. Eastwood insiste sul racconto morale, come medicina dello spirito, contro l’imbarbarimento dilagante, il cinismo, l’indifferenza, l’incuria, contro quella condizione diffusa di anaffettività verso persone e cose che ha sopraffatto le nostre esistenze, impoverendole e deturpandole.
Con Sully deflagra la trincea di comatosa vile prudenza in cui la gente pare essersi rinchiusa e adagiata comodamente.
Si ritorna a raccontare il coraggio di osare, di fare la differenza, di compiere scelte difficili e scomode che possono compromettere se non mandare in fumo il lavoro di una vita e la vita stessa, ma che non possono non essere prese e non possono non essere quelle, poiché sono le sole giuste, le uniche possibili.
Eastwood dirige col solito polso fermo, secondo il suo stile rigoroso, asciutto, essenziale, lavorando di sottrazione piuttosto che di accumulo, come la sua cifra stilistica contempla; tiene a freno l’enfasi dell'azione eroica, non cade nella retorica del racconto edificante, non si abbandona a momenti fastidiosamente sdolcinati vista la naturale predisposizione della sceneggiatura, comunque ben scritta, come è probabile, sarebbe accaduto nelle mani di un qualsiasi altro regista.
Innerva di tensione sotterranea la pellicola e la ammanta di una lucidità attraente e disarmante insieme nel dispiegare i fatti che, volendo esporli con la massima obiettività possibile, sceglie di rappresentarli attraverso una messa in scena d’impostazione fortemente realistica, accentuata dall’uso di una fotografia plumbea, a riprodurre gli ambienti di una New York innevata, colta nella sua stagione più fredda.
Onorando la definizione conferitagli di moderno autore classico, il buon vecchio Clint non cede alla tentazione di trasformare il film in un puro, magari svuotato di senso, esercizio di stile nel ricostruire per immagini la vicenda dell’ammaraggio sull’Hudson: offre, è vero, differenti prospettive dell’accaduto che articolano magnificamente la pellicola, ma resta fedele a se stesso, riconfermandosi un eccellente narratore di storie prima ancora che un rivoluzionario del linguaggio cinematografico.
E se da un lato riesce nell’intenzione di conferire al film un respiro classico prediligendo il racconto tradizionale alla ricerca virtuosistica, dall’altro, assicurandogli una resa spettacolare veramente notevole, supportata da effetti visivi molto ben fatti, lo catapulta prepotentemente nel nostro presente, non lasciandolo affatto sfigurare tra quelle produzioni contemporanee che per la loro riuscita si avvalgono di un importante lavoro di post produzione e computer grafica.
Alla fine Sully l'eroe non è poi tanto diverso dall'eroe cecchino di American Sniper: sono entrambi uomini che si muovono nella linea del fuoco, acconsentono a portare sulle proprie spalle il peso delle loro scelte -necessarie repentine irreversibili- e ne sopportano il fardello.
E per quanto spetti a loro l’ultima parola, posseggono quella rara saggezza di confidare in chi li circonda, di credere nella forza dei singoli, nella convinzione che una volta insieme, facendo gioco di squadra, si possano davvero affrontare e vincere le avversità che il nostro affannoso peregrinare sulla terra ci riserva.
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