Regia di Olivier Assayas vedi scheda film
Elaborazione del lutto e precarietà esistenziale, in un pastiche pretenzioso e superficiale che prova a riflettere sulle marchiane contraddizioni tra materialismo e spiritualismo, in una dialettica del risibile che abita i comodi salotti e le dimore molto poco filosofali delle moderne metropoli occidentali.
Maureen fa la personal shopper per una celebrità del jet set, è dotata di facoltà medianiche ed ha perso da poco il fratello gemello per una malformazione congenita del cuore da cui lei stessa è affetta. Alla ricerca di un contatto con il congiunto defunto, rimanda il viaggio che le farà riabbracciare il fidanzato in trasferta di lavoro in Oman, fin quando gli strani messaggi di un interlocutore misterioso cominciano ad arrivarle sul cellulare e la donna per cui lavora viene barbaramente uccisa nel proprio appartamento.
Lewis, se ci sei, batti un colpo!
Scritto in fretta e furia per recuperare il tempo perduto con un progetto americano andato in fumo, Assayas cerca di ripetere lo schema precedente con una variazione sul tema che si sposta dalle riflessioni svizzere sul cortocircuito emotivo di una vita sospesa tra finzione e realtà a quelle parigine sul labile confine che separa il materialismo dei vivi dall'insostenibile leggerezza dei morti, spostando il baricentro dell'azione dalle vicissitudini di una ex primadonna che insegue il fantasma di una identità che non c'è più a quelle della sua paziente servetta alle prese con lo spettro assai più concreto di un fratello che non se n'è ancora andato. Risultato di una contaminazione di registri che cerca nella leggerezza del realismo magico e negli escamotage del cinema di genere, la sintesi di un originale discorso cinematografico sul senso non banale di esistenze comuni messe di fronte al significato trascendente della propria esperienza di vita, finisce per incartarsi con il tracciato piatto di una messa in scena priva di sussulti ed l'involontario ridicolo di snodi narrativi da thriller metafisico d'autore, scimmiottando da un lato la volubilità dei rapporti umani di molto cinema autoctono e dall'altro le ambiguità di un gioco delatorio che rimanda dritto dritto al Cachè di Michael Haneke. Minuta galoppina della moda pret-a-porter, la Stewart fa la spola tra l'alta borghesia spendacciona e le fantasmatiche presenze al tempo dei social media. Elaborazione del lutto e precarietà esistenziale, in un pastiche pretenzioso e superficiale che prova a riflettere sulle marchiane contraddizioni tra materialismo e spiritualismo, in una dialettica del risibile che abita i comodi salotti e le dimore molto poco filosofali delle moderne metropoli occidentali. Dramma sovrannaturale dal ritmo anestetizzato e dal registro antispettacolare in cui una novella sorella gemella di un famigerato film di uno dei figli di Steno in trasferta milanese si ritrova alle prese con le origini esoteriche dell'arte astratta, la scrittura automatica delle faccine di WhatsApp ed i gravitoni sfuggenti di una dimensione parallela che manomettono a sproposito la rubinetteria di casa.
Scene scult: il conato ectoplasmarico di un ectoplasma, i Gorilla gorilla incolpevolmente sotto contratto, il fidanzato informatico prigioniero professionale di un sultanato arabo nè più nè meno del Tom Hanks di A Hologram for the King ed il feticismo masturbatorio in un abito da sera esageratamente costoso.
I fantasmi non sono per forza tutti cattivi come li dipingono le astrattiste di inizio secolo e quello di questo film è un novello detective che inquina a fin di bene le prove del reato, assicura alla giustizia amanti assassini e consolida le speranze ultraterrene di una sottopagata cultrice dell'haute couture.
Addirittura ex aequo con il Cristian Mungiu di 'Un padre e una figlia' come miglior regia al Festival di Cannes 2016. Inveterato sciovinismo transalpino.
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