Regia di Stefano Bertelli vedi scheda film
Stop-motion cartaceo per l'esordio dell'italiano Stefano Bertelli, che crea un microcosmo in cui si dipanano avventure e trame semplici dallo straniante potenziale onirico.
Se pensiamo all'animazione "all'italiana" ci vengono in mente situazioni e disegni dal sapore monocorde, con tratti ipersemplificati e predominanza della bidimnesionalità. I più avvezzi alla programmazione per l'infanzia, cui l'animazione italiana e occidentale in genere è prevalentemente rivolta, conosceranno il tratto netto ed espressivo di Altan o quello appena un po' più sfuggente di Enzo D'Alò, che mescola sapientemente letteratura e realtà, fantasia e accenti vernacolari. Poche le "serie", che ricadono nel target prescolare: si pensi a "i minicuccioli" o alle avventure tratte dai libri di "Giulio coniglio". Unica eccezione italiana all'ipersemplificazione estetica sembra essere la casa di produzione Rainbow, con le celebri creature di Iginio Straffi "Winx" e "Regal Academy", in cui si avverte un tentativo di contaminazione con le produzioni USA e si collabora con uno staff europeo, come nella serie a tecinca mista "Mia and me", nel quale emergono tratti di suggestioni liberty nella presentazione di ambienti e personaggi. Fa il suo esordio anche la computer grafica, ma con risultati spesso maldestri tradotti in spigolosità motorie e plot banalmente imitativi.
Bertelli, che produce con uno staff internazionale alle spalle, abbandona definitivamente la chimera della tridimensionalità portando alle estreme conseguenze la ricerca di semplificazione e nettezza, riducendo dunque le sue creazioni ad elementi geometrici dal vago sapore espressionista. Per farlo si avvale della scarscamente esplorata tecnica in stop motion applicata ad elementi cartacei. Personaggi dai volti irrealmente tondi o all'opposto quadrati, ritagli animati che si stagliano su sfondi plumbei e volutamente privi di respiro.
Gli iper -caratterizzati componenti dei Paper Back (altro nome allusivo) si muovono in uno "spazio acido", in cui la musica indie -rock si fonde ad un vago richiamo all'esperienza allucinogena che però non manifesta in modo tangibile o didascalico la sua presenza, non stride, non ammicca nè disturba la visione per un pubblico molto giovane. Anche la trama è ridotta all'essenziale: il concerto della band in un canyon porta i suoi membri alla scoperta di un universo alernativo, popolato di polipi musicisti e avventori di un bar dalle sembianze triangolari. È un mondo alieno dai fiammeggianti toni fuxia manovrato dall'ennesimo mega-antagonista, un malvagio che tiene in scacco i suoi cittadini proibendo loro di fare o ascoltare musica.
Affronteranno lotte in grovigli di arti meccanici e astratti, in un susseguirsi di prove di abilità e raduni liberatori all'insegna dell'estasi musicale. Le personalità bidimensionali e riconoscibili di protagonisti, antagonisti e comprimari non sembrano perdere la propria evidenza di fronte ad uno sguardo attento ma sublimano la loro essenza confinata ed incompleta in una grande sinfonia collettiva, esaltata da un suono sempre più incisivo e martellante che suggerisce una momentanea perdita di identità e controllo. La storia semplice ed il finale atteso costituiscono quindi un gustoso e in parte furbo pretesto per sfuggire alla propria complicata natura, attraendo nel gioco un pubblico potenzialmente multiforme. Sapiente è anche il susseguirsi di rimandi vintage, a tratti inseguiti in modo compulsivo ma mai fine a se stessi: il nemico della musica e i suoi scagnozzi sono volutamente disegnati come anti-eroi fantascientifici anni '80, in seguito accompagnati da voci e strumentazione metallica e robotica, mentre timbri più caldi e low-fi accarezzano i protagonisti evocando l'immaginario grunge di inizio anni '90. L'esperienza onirica potrebbe dunque avvolgere, rapire o respingere lo spettatore bambino, mentre l'adulto sarebbe chiamato a confrontarsi con un ostinato ancoramento ad un'esile, elementare dimensione narrativa.
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