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Lo straniero

Regia di Orson Welles vedi scheda film

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La recensione su Lo straniero

di (spopola) 1726792
8 stelle

Considerato a mio avviso a torto un risultato minore nella carriera del regista, il film si conferma opera di altissimo valore che utilizza con sapiente maestria il canovaccio dello “straniero” in casa “che non è mai quello che sembra e che qui è molto di più e di peggio del codificato cliché del “maniaco” o dello “squilibrato”.

D’accordo, non sarà il miglior film di Orson Welles, potrà essere classificato dai più (quasi tutti per la verità) come “un giallo sui generis” il cui maggior pregio è stato forse quello di aver sfruttato sapientemente tematiche all’epoca “caldissime”, così a ridosso con la fine della guerra, il crollo della Germania e le “rigenerazioni” dei nazisti superstiti in fuga che tanto terrorizzavano l’immaginario collettivo (correva l’anno 1946 quando il film fu prodotto), ma io trovo che anche oggi il raffronto con le immagini di questa pellicola che nuovamente mi scorrono davanti sul piccolo schermo grazie a un Dvd proprio in questi giorni “recuperato” a basso costo su una bancarella del mercato rionale, pur se viste e riviste (da me ovviamente) in decine di passaggi in sala e in Tv, rappresenti sempre e comunque “un bel guardare”, un’esperienza insomma capace di riaccendere una “rinnovata”, analoga e intatta emozione per niente appannata (e non è un merito da poco questo - ci saranno delle ragioni ascrivibili alla “qualità della mano” che ha diretto - se nonostante gli anni, visto che di acqua sotto i ponti in questi sessant’anni ne è davvero passata parecchia, l’ovvietà della storia è ancora in grado di mantenere al massimo grado il livello di attenzione e di coinvolgimento dello spettatore). Certo (e questo è indiscutibile) “Lo straniero” è sicuramente il film più convenzionale e “conforme alla norma” di tutta la filmografia del regista, arrivato per altro dopo due capolavori assoluti e dirompenti (per tematiche e costruzione visiva) come “Quarto potere” e il massacrato “Orgoglio degli Amberson” (che nessuno purtroppo potrà mai più restituirci nella sua interezza), ma non rappresenta in ogni caso (come “la scelta”canonica della linearità del linguaggio potrebbe far supporre) una incondizionata “resa al sistema”, l’accettazione delle “regole”, tutte e comunque. All’interno della struttura sono infatti ravvisabili molti degli eccessi (e delle “scorrettezze”) tipici del cinema wellessiano, solo molto più imbrigliati e “sottotraccia” del solito. D’altra parte il trattamento riservato all’”Orgoglio degli Amberson”, non credo che lasciasse al momento molte possibilità per “tentare” ancora di divergere dal sistema produttivo se si voleva continuare a lavorare a Hollywood (e anche il successivo “La signora di Shangai” sarà infatti – forse con maggiore genialità creativa – una pellicola nel solco della tradizione del genere, pur se dichiaratamente incapace di rispettarne interamente tutti i precetti). Se possiamo quindi considerare quasi una pausa di riflessione (o accomodamento convenzionale) questa produzione, dobbiamo comunque riconoscere che, pur con qualche “forzatura ingenua”, il film si conferma opera di altissimo valore (non solo documentale) che utilizza con sapiente maestria il canovaccio abbastanza di moda (anche a quei tempi) dello “straniero” in casa “che non è mai quello che sembra (o che vorrebbe sembrare) e che qui è molto di più e di peggio (rappresenta un personaggio molto più complesso e ambiguo dalle gravose responsabilità ideologiche e morali) del codificato cliché del “maniaco” o dello “squilibrato” che attraverserà una fetta considerevole del cinema giallo fino ai giorni nostri, spesso scivolando pericolosamente nello stereotipo. Ben supporta dallo straordinario bianco e nero di Russel Metty , la suspense – quella genuina, costruita senza colpi di scena eclatanti e forzature (come troppo spesso accade invece nel cinema contemporaneo) risulta così “opprimente e “spessa” che – oserei dire – si taglia quasi col coltello, ed è una sensazione - insolita e spiazzante – che arriva a“serrare” la bocca dello stomaco e ad amplificare il ritmo dei battiti del cuore, serpeggiando spontanea e incontenibile dalle inquadrature e dal montaggio, fino a bloccare il respiro in gola (tutta “ricamata” com’è sulle contrapposizioni degli stati d’animo e sulla implacabilità ossessiva degli eventi) anche quando (come nel mio caso) si conosce già “come andrà a finire” e l’epilogo non è più un mistero. L’atmosfera è cupa e coinvolgente, ma non priva di annotazioni ironiche, non ultima quella della scena conclusiva ora “reinserita” nel dvd (ma omessa nella versione circolata in sala). La storia è quella di un criminale nazista “rigeneratosi” sotto mentite spoglie in una cittadina della provincia americana (dove ha assunto le vesti di un rispettabile insegnante in procinto di sposarsi con la figlia di un giudice locale) che un detective governativo tenterà di individuare e di consegnare alla giustizia, interrompendo così la scia di delitti che il criminale si porta dietro, ultimo baluardo di difesa per proteggere l’impermeabilità della sua nuova identità. Se la sequenza mozzafiato sul campanile fra gli ingranaggi dell’orologio e “l’angelo vendicatore con la spada che trafigge” è giustamente ricordata da tutto come la “punta di diamante”, il momento più alto e creativo dell’intera pellicola, sono molte altre le perle disseminate in giro (e dispensate a piene mani) a partire dalla sequenza iniziale, o da certi “raccordi” narrativi nel negozio del farmacista che gioca a scacchi e “tutto osserva”, più che nel veloce, convulso improvviso assassinio nel bosco, analogamente di pregio per la incisività della costruzione, essenziale e senza sbavature. Ma ci sono davvero molti altri momenti che presentano la sottile “genialità dell’invenzione”, come la rottura improvvisa della collana per quel trasalimento improvviso e nervoso delle dita che tradisce e anticipa l’infrangersi delle certezze o lo scarabocchio sul muro fatto da Rankin durante la telefonata alla moglie che si trasforma nel disegno quasi automatizzato di linee che diventano una svastica subito occultata. Prodotto da Sam Spiegel e realizzato a partire da una sceneggiatura originale di Anthony Veller (sembra scritta con la collaborazione non accreditata di Huston), il film, oltre che un giallo, è anche un “racconto morale” che intende evidenziare l’ambiguo rapporto che ha unito il nazismo alla borghesia, ben oltre la “caduta” di Hitler. Sia pure con qualche piccola “sbavatura sopra le righe”, Welles (anche interprete) ci regala in questo contesto, una sfaccettata, credibile figura di nazista tutto teso a “difendere” ad ogni costo la propria integrità personale. Più convenzionale il personaggio del “cacciatore di assassini”, reso comunque con la consueta bravura da Edward G. Robinson. Fra tutti però emerge prepotente e in primissimo piano lo splendido ritratto di una donna innamorata e devota, fra dubbi e recriminazioni, reso indimenticabile da Loretta Young, tutta occhi e fremiti sotto le lunghe ciglia tremule.

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