Regia di Mickey Keating vedi scheda film
Un horror risaputo che (ri)percorre il tema della casa infestata. Ma al contrario della prevedibile sceneggiatura, la tecnica del regista (supportata dalla convincente interprete) riesce a farsi notare. Girato in uno splendido bianco e nero.
Assunta come custode di un enorme edificio newyorchese, una ragazza (Lauren Ashley Carter) scopre che attorno al palazzo circolano strane voci circa un precedente inquilino, e sue probabili evocazioni demoniache. Essere stata informata che la precedente custode si è suicidata gettandosi dal piano più alto non la rende affatto tranquilla. Quando, all'interno di un mobile, rinviene una collana il suo comportamento inizia a mutare, lentamente ma con costanza.
Dopo il bruttissimo esordio (Ritual), Mickey Keating cambia stile, perseguendo un tipo di storia per nulla originale. Al contrario, già trattata agli esordi del cinematografo (ad esempio Paul Leni e Il castello degli spettri del lontanissimo 1927). Non solo: per rendere ancora più classico il film predilige il bianco e nero, finendo per conferire così al girato uno spiazzante taglio anacronistico. In evidente debito a certe tematiche di Polanski, prova a raccontare il lento e graduale progredire di uno stato d'animo turbato, indirizzato verso derive alienate e alienanti. Il degrado mentale della protagonista è dovuto in buona parte all'effetto d'isolamento dato da una metropoli (New York) che -se vista nella sua grigia architettura- non è affatto una città a misura d'uomo.
Le riprese degli enormi palazzi, catturate da ogni angolo possibile -sopra, sotto, di lato- con vertiginosi punti macchina, sostituiscono l'assenza di personaggi secondari. Darling, interpretata mentre scorrono i minuti da una sempre più stralunata Lauren Ashley Carter (bravissima e con una eccezionale capacità espressiva), si ritrova abbandonata tra le mura sinistre di un edificio storicamente segnato da fatti cruenti. Può interagire solo con se stessa, o con i palazzi vicino, anch'essi dunque protagonisti, almeno come muti testimoni di una tragedia annunciata.
La percezione distorta della realtà (lo scambio di identità con l'unico uomo che incontra in un locale) è fonte di una prospettiva ribaltata (non a caso, al termine, i palazzi, in campo lungo, verrano inquadrati capovolti). Stanze segrete, dicerie popolari e improvvise visioni. Tutto si sviluppa in sei sintetici atti. Abyssus abyssum invocat: il demone appare e scompare subitamente, oscurato dalle tenebre e svelato da flash istantanei dove luci stroboscopiche suggeriscono -a livello subliminale- i tratti dell'entità malevola. Che sono, guarda caso, gli stessi della protagonista. Abbruttiti, inquietanti, alterati da un evento accostabile alla possessione. E questa volta, forte di una matura messa in scena valorizzata da non banali effetti visivi, Keating riesce a completare un horror efficace, ben strutturato anche se privo di elementi di novità. Come prima (e dopo, in Carnage park) fa la sua veloce comparsa Larry Fessenden (è uno dei poliziotti che entra in casa nel finale), cineasta amico (e sponsor) di Keating, che pure in questo contesto non rinuncia ad un momento splatter decisamente disturbante perché studiato -e messo in atto- nello stile di Hitchcock: lo smembramento di un corpo umano nella vasca da bagno, realizzato con alternanza di stacchi e angolazioni. Efficacissimo proprio perché intelligentemente censurato nei momenti più significativi, finendo così per colpire -più che allo stomaco- la fantasia dello spettatore.
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