Regia di Sevé Schelenz vedi scheda film
“Tutti i corpi fisici sono fatti interamente da un numero infinito di pelli di fantasma, una sull’altra. La fotografia ha il potere di spellare la maggior parte di queste. L’esposizione alla camera di fatto diminuisce il Sé” [Honoré de Balzac]
Il POV che uccide. Sciogliendo l’acronimo, il punto di vista che uccide. I protagonisti di Skew, perla horror che si scova solo scavando nel profondo web, sono quattro. Tre umani, uno digitale. La videocamera, così come il giovane Simon, sono due protagonisti invisibili. Due i protagonisti visibili, gli unici ben distinguibili in un mondo che, pur immerso nella sua normalità, sembra attraversato da un’agghiacciante Apocalisse. Infatti tutti quanti coloro che la telecamera riprende e avvinghia nell’immagine, hanno un volto deformato, confuso, mostruoso. Solo Rich e Eva sono “normali”, e sono sopravvissuti. Per il resto, il mondo è divenuto un limbo, come se si stesse lentamente azzerando. Non ci importa se lontano dal nostro punto di vista qualcuno vive sereno, è il mondo della percezione quello che ci interessa, e Simon percepisce, in diretta, l’ondivaga morte.
Skew è un mockumentary anomalo, ed è un curioso, felicemente pretenzioso, inno al relativismo dello sguardo, anche di quello di una fredda videocamera. Di fatto, nel film di Sevé Schelenz, la telecamera prende vita. Non alla maniera di Vertov, in maniera quasi divertente, ma orribilmente perché letteralmente intorno a tutte le immagini. Ma non prende vita indistintamente, è Simon in qualche modo ad animarla, a renderla mietitrice di anime, e ricettacolo di mostruosi fantasmi. In mano ad altri, o appoggiata su altre superfici, la videocamera è inoffensiva. Ma quando è Simon a tenerla, filtra tutta la sua interiorità fino a livelli traumatici. Infatti se Simon riprende qualcuno con la videocamera, qualcuno cui lui non voglia spiccatamente bene, quel qualcuno muore.
Ma la videocamera non riprende il reale, non può testimoniare il mondo. Perché se Simon avvista un fantasma, e noi partecipiamo al rewind della cassetta, quel fantasma nella registrazione non c’è più, si è liberato dall’occhio di Simon. Eppure è proprio la videocamera a fare da filtro, a ingannare di sua spontanea volontà. A mettere Simon, Rich e Eva l’uno contro l’altro. Le tensioni, lungo tutto Skew, sono un crescendo apparentemente banale ma che passa direttamente per le immagini e le sue contraddizioni. Il soprassalto delle domande, a un certo punto, è violento, e si fa strada il sospetto che Skew sia, in effetti, o un elogio al terribile potere dell’immagine, o un’accusa postmoderna all’impossibilità di percepire, nei fatti, ciò che ci circonda, più che un banale found footage, anche perché è come se partecipassimo in diretta agli eventi, e non fossimo solo resi partecipi di una loro riproduzione. Sembra un rischio avventarsi su simili congetture, vista la matrice underground del film, ma Skew, nel suo potente finale in cui ha intenzione di non rivelare nulla, e lasciare lo spettatore distrutto dalle domande e dai dubbi – così da raggelare davvero – lascia adito ad ampie riflessioni, sia sul male insito nel reale sia sul parassitario sguardo-spia di un occhio che vede tutto e vede oltre.
Sorvolando su alcuni dialoghi, specie nella prima parte, e sulle apparizioni dei fantasmi, che quelle volte che appaiono cedono alla tentazione del facile e poco raffinato jump scare, Skew è un film maturo con un’idea ben precisa e una ben precisa volontà di portarla avanti nonostante l’evidente ristrettezza del budget, nonostante il rischio di rivelare che la trama è puro pretesto, e che i personaggi sono assolutamente poco banali e ben caratterizzati nei loro altalenanti umori – dunque, antispettacolari.
Un horror da trovare a tutti i costi, per gli appassionati e per i non. Perché se tutti gli horror provano gusto a finire in maniera tragica, in questo la tragedia è più sopraffina e misteriosa, e tira in ballo niente poco di meno che l’identità e l’invisibile.
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