Regia di Brian Hill vedi scheda film
È pacifico che nello scrivere su un film si debba fare attenzione a non fornire informazioni troppo dettagliate sulla storia ivi narrata, per evitare di dare al lettore anticipazioni troppo specifiche sul finale e rovinargli il piacere della visione. Il genere documentaristico esula parzialmente, di solito, da questa regola aurea, trattandosi di norma di resoconti cronachistici di avvenimenti nei quali è perlopiù noto sia il punto di partenza che quello di arrivo: a far la differenza, in determinati casi, è il metodo con cui l'argomento è approcciato, o il percorso scelto dal regista per supportare la propria tesi o per svelare i passaggi intermedi che hanno costituito lo sviluppo della storia.
The Confessions of Thomas Quick, di Brian Hill, ne è un caso esemplare.
Ad esser narrata è la storia incredibile di Sture Bergwall, che scelse lo pseudonimo di Thomas Quick (Thomas "il rapido") per confessare uno via l'altro, dal 1993 in poi, gli omicidi, conditi da stupri e mutilazioni, di 39 persone dichiarate scomparse nel corso degli anni, finendo condannato per otto di questi e guadagnandosi la fama di più grande serial killer della storia della Svezia. Salvo, nel 2001, ritrattare affermando di essersi inventato tutto di volta in volta, mettendo a nudo l'artificiosità dell'impianto (auto)accusatorio ma soprattutto la superficialità delle teorie psichiatriche portate avanti dalla clinica Säter, presso la quale era in cura dal 1991 per dei disturbi psichici e che grazie al suo caso ottenne riconoscimenti e fama.
Hill struttura narrativamente la prima parte del proprio film come una sorta di slasher teorico, passando in rassegna i diversi omicidi e soffermandosi su particolari truculenti e disgustosi, in un susseguirsi di descrizioni agghiaccianti che fanno venir voglia di alzarsi dalla sedia gridando «basta!». Restar seduti invece serve, perché quella che di primo acchito può passare come un'attenzione morbosa e gratuita a dettagli sui quali il buon gusto consiglierebbe di soprassedere, trova il suo senso quando nella seconda parte il registro cambia e, con gusto del paradosso e punte di nerissimo umorismo, viene svelata l'inaudita verità e messo in chiaro quale meccanismo deviato avesse portato alla creazione del mostro.
Proprio la scelta di questo tipo di struttura, permette a Brian Hill di fare del proprio film non solo un documentario di sorprendente impatto emotivo su un caso giudiziario eclatante fondato sul nulla, ma anche un esempio circostanziato di come, talvolta, per manipolare la verità ed ingannare la giustizia bastino un poco di sana follia, megalomania, o desiderio di notorietà.
Unica nota negativa per un film assolutamente da vedere, è la scelta antidocumentaristica di inserire, tra foto, registrazioni d'epoca e interviste reali, ricostruzioni filmate di singole scene recitate da attori professionisti: un espediente evitabile che cozza con la scientificità del resto ma in fin dei conti, e per fortuna, non incide più di tanto sul risultato finale.
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