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Dobbiamo parlare

Regia di Sergio Rubini vedi scheda film

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La recensione su Dobbiamo parlare

di scandoniano
7 stelle

Sergio Rubini come Roman Polanski. Per quanto azzardata, è una similitudine che regge se il tema è quello della closed room. Dopo aver condiviso davanti alla macchina da presa la tematicadell’angoscia esistenziale, veicolata attraverso un allestimento claustrofobico nel capolavoro crepuscolare e semisconosciuto di Giuseppe Tornatore “Una pura formalità”, con “Dobbiamo parlare” Sergio Rubini decide di mettersi in proprio, e seguendo le orme del collega Polanski (autore di quel “Carnage” che sfrutta il medesimo immaginario estetico e solo in parte narrativo) affronta il discorso sulla camera chiusa inscenando una commedia dai ritmi compassati ma ficcanti con un’impalcatura, non solo formale, che ha più di qualche punto in comune con la dimensione teatrale.

Tuttavia il parallelismo tra i due autori finisce qui. Perché seppur con numerosi punti in comune nel soggetto (due coppie si ritrovano rinchiuse in un’abitazione, finendo per scavare nelle proprie esistenze) a ben guardare “Carnage” e “Dobbiamo parlare” rappresentano due interpretazioni personali del medesimo tema, costruite sì partendo dallo stesso spunto narrativo, ma sul piano dei contenuti e forse su quello ideologico, parliamo di prodotti completamente differenti. Uscendo da una visione di superficie, le tematiche vissute dalla coppia di medici (Fabrizio Bentivoglio e Maria Pia Calzone) e quella di scrittori (Sergio Rubini e Isabella Ragonese) sono ben diverse da quelle allestite dai quattro protagonisti di Polanski. Anzi non potrebbero esserlo di più. Anche gli equilibri tra le coppie, le assonanze di genere, sulla pregnanza politica delle caratterizzazioni, sul ritmo e sulla dimensione narrativa non possono che risultare diversissime. Così come gli equilibri, l’andamento, ma anche le premesse (banale la lite tra i coniugi di Polanski, molto più profonda e grave l’incipit della nottata insieme nella versione di Rubini). “Carnage” non è dunque un archetipo, ma solo un punto di partenza, un’ispirazione, dalla quale Rubini porta avanti la sua storia con risvolti e risultanze che sono peculiari. Ecco perché accostare troppo i due film, come fatto da più parti, appare come un atto di scarsa lungimiranza critica. Si pensi, inoltre, ai presupposti produttivi: questo film ha avuto un’incubazione teatrale, una sorta di esperimento quasi unico nel suo genere, per cui prima di essere portato sul grande schermo “Dobbiamo parlare” è stata una pièce teatrale e, solo dopo averne appurato l’accoglienza benevola del pubblico, un film; una pellicola con un budget scarno, con un allestimento scenografico curato ma non maniacale, con una troupe ridottissima (per esigenze logistiche prima che economiche), girato tutto in notturna. Esattamente l’opposto del suo presunto archetipo.

Dobbiamo parlare” è un film dal maestoso crescendo, con un finale molto duro, che ha spunti di riflessione (in primis la domanda “Basta il solo amore a tenere unita una coppia?”) che meritano più di qualche riflessione. Ma è in primis il trionfo di Fabrizio Bentivoglio, uscito definitivamente da quella gabbia salvatoresiana con cui si proponeva ciclicamente nel ruolo del milanese un po’ tonto e bonario. Qui Bentivoglio esce dagli schemi che gli erano consoni, si libera di una dimensione che somigliava sempre più a quella da caratterista, diventa cinico e disincantato, mettendo in scena un chirurgo cialtronesco, con la parlata da romanaccio consumato, che pur avendo un numero di battute minori (rispetto per esempio a Rubini e Ragonese, in definitiva i protagonisti principali, seppur involontari, delle vicende), ruba la scena per la natura intrinseca del suo personaggio, un misto tra il superuomo nietzschiano e l’aiuto cuoco di un chiosco di porchetta. Non a caso il budget del film investe sul consumato attore meneghino, infilando nel cast altri tre protagonisti dalle minori pretese economiche, ma dalla sicura affidabilità (dalla Donna Imma della serie “Gomorra”, all’emergente Isabella Ragonese, fino allo stesso Rubini, che incassa come regista e arrotonda come attore).

Un prodotto dalla distribuzione risicata, ma dalla grande freschezza, alternativa (sempre più gradita) ad un cinema italiano che anche grazie a “Dobbiamo parlare” dimostra non gradire il fatto di essere sempre uguale a se stesso.

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