Regia di Sergio Rubini vedi scheda film
All'inizio degli anni 90 la critica italiana per sottolineare i difetti della nostra cinematografia coniò un espressione "cinema da due camere e cucina" che ironizzava sulla tendenza di registi e sceneggiatori di collocare le proprie storie in ambienti casalinghi modesti e angusti, che finivano per diventare il simbolo della mancanza di prospettive e di una certa forma di indulgenza che caratterizzava le produzioni di quel periodo. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di un cinema che, nel tentativo di scrollarsi di dosso i fantasmi del suo glorioso passato finiva inesorabilmente per ripiegarsi su se stesso. Ebbene, questa boutade c'è tornata in mente durante la visione del nuovo film di Sergio Rubini che il regista e attore pugliese ha presentato al festival di Roma in una proiezione presieduta dal direttore della manifestazione Antonio Monda, garante della qualità di un'opera che attraverso i suoi collaboratori aveva in qualche modo contribuito a selezionare. In un primo momento pensavamo che a motivarne l'idea fosse stata appunto l'ambientazione della storia, girata interamente all'interno di un attico romano affacciato sul centro di Roma, e poi il soggetto della vicenda, centrato sullo scontro verbale che si scatena tra due coppie d'amici che si amano e si odiano nell'arco di una nottata trascorsa a rinfacciarsi tradimenti e ipocrisie.
E a poco era servito, nel tentativo di sconfessare questa sensazione, il paragone lusinghiero - in termini di intenti e aspirazioni - con il "Carnage" del grande Roman Polanski; perché, pur nella corrispondenza dei temi e della struttura narrativa, il film di Rubini purtroppo non possedeva la capacità di sublimazione che aveva permesso al cineasta polacco di superare la pesantezza del testo con quel sarcasmo e quell'cattiveria che nel lungometraggio di Rubini si trasformano nel compiaciuto riconoscimento della propria intelligenza e perspicacia. A mente fredda, si fanno strada più modestamente titoli come "Maldamore" di Angelo Longoni e "In nome del figlio" di Francesca Archibugi che di "Dobbiamo parlare" sembrano una sorta di anticipazione e che, nella continuità di luogo, situazione e personagg,i finiscono per alimentare la sensazione di un ritorno a quei difetti del cinema italiano che i critici si divertivano a prendere in giro con l'espressione di cui parlavamo in apertura. Fortunatamente, non è così, perché come abbiamo avuto modo di constatare proprio qui a Roma con il film di Mainetti (Lo chiamavano Jeeg Robot), ultimo arrivato di una nuova generazione di registi, le prospettive del nostro movimento sono tutt'altro che malvagie. Eppure dispiace che sia proprio sia proprio Rubini a fornire il destro per rammentarci di quanto ancora ci sia da lavorare per disfarsi di ciò che non funziona, perché il regista pugliese si era ritagliato un posto di rilievo tra gli autori della sua generazione in virtù di una serie di titoli (da "La terra" a "L'amore ritorna" al bellissimo e sottovalutato "Colpo d'occhio") tanto personali quanto moderni nel ritratto della nevrosi dell'uomo contemporaneo.
A tradire la riuscita di "Dobbiamo parlare", per quanto possono valere questo tipo di distinzioni, non sono i personaggi e con loro, le interpretazioni che ne danno Maria Pia Calzone (una rivelazione qui e altrove) Isabella Ragonese, Fabrizio Bentivoglio (che nel suo accento romano però risulta un poco sopra le righe) e lo stesso Rubini che dopo "Colpo d'occhio" si ritaglia un altro ruolo di artista e intellettuale; quanto piuttosto le forzature che riguardano sia il meccanismo narrativo che da vita al valzer di contrapposizioni e punti di vista orchestrati per l'allucinato rendez vous , troppo scoperto e calcolato per risultare credibile, sia la sceneggiatura, che nel voler essere la cartina di tornasole della complessità politica sociale ed economica della nazione finisce per darne un ritratto stereotipato. La conseguenza più evidente è quella di azzerare il fuori campo a cui vorrebbero rimandare i costumi e la mentalità dei personaggi: quel mondo così poco sommerso di cui ogni giorno leggiamo e che l'opera ambisce a ritrarre con esattezza. Ipse dixit: ciò che rimane è ancora una volta la dimensione ristretta due camere e cucina del succitato tormentone.
(pubblicato su ondacinema.it)
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