Regia di Fabio De Luigi vedi scheda film
Pensiamo che per un attore di lungo corso l'idea di passare dietro la macchina da presa costituisca qualcosa di più di un vezzo artistico o dell'opportunità di sfruttare un momento particolarmente favorevole dal punto di vista lavorativo. Al contrario diventare regista in età matura e all'apice del successo personale è il segno di una personalità che non si accontenta e che in qualche modo sente il bisogno di mettere in discussione il proprio status quo. In casi come questo l'interesse dello spettatore è duplice perché oltre a verificare i risultati di un cambiamento tutt'altro che scontato esiste la curiosità di scoprire in che misura la nuova forma d'espressione venga influenzata dal vecchio mestiere. Le sorprese non mancano perché più di una volta siamo rimasti sorpresi da prove di regia capaci di ribaltare le aspettative poste in essere dalla carriera d'attore dei novelli cineasti. Pensiamo ad esempio a Mel Gibson e al suo L'uomo senza volto, apripista di una tetralogia tanto acclamata quanto discussa, e distante anni luce dal mainstream di "Mad Max" e di "Arma letale" oppure, tanto per citare uno dei casi più singolari, all'Edward Norton di "Tentazioni d'amore" che dopo anni di cattive frequentazioni affida le sorti della sua direzione alla messinscena di un triangolo sentimentale che nulla ha da spartire con il maledettismo dei suoi personaggi. Tutto questo per spiegare al lettore i motivi che in parte hanno reso deludente la visione di "Tiramisù" , opera prima di Fabio De Luigi, arrivato al debutto con un'esperienza che poteva contare su una versatilità da commediante affinata da anni di militanza nel genere in questione - cinepanettoni inclusi - e comprensiva della scrittura di ben tre sceneggiature.
Caratteristiche che De Luigi utilizza per raccontare la storia di Antonio Moscati, da lui stesso interpretato, rappresentante di prodotti farmaceutici che arrivato sull'orlo del tracollo lavorativo vede aprirsi la strada del successo grazie alla popolarità riscossa dai dolci della moglie Aurora di cui l'uomo fa omaggio ai suoi interlocutori. Ora, considerando che nel film in questione i contenuti relativi alle lusinghe del denaro e dell'affermazione personale, inseguite dal protagonista anche a costo di sacrificare gli affetti famigliari, si consumano tutti in superficie, attraverso il concatenarsi di situazioni esemplari - per esempio quella del festeggiamenti al ristorante in pieno stile cafonal oppure quella di fantozziana memoria in cui il week end trascorso a casa del capo si risolve nell'esibizione di un'incontrollata piaggeria - che non lasciano dubbi sul segno da attribuire ai vari avvenimenti. E ancora tenuto conto che i ruoli di secondo piano, monopolizzati da caratteristi di lusso del calibro di Orso Maria Guerrini, Pippo Franco e Bepo Storti non aggiungono alcun spessore alla storia ma servono più che altro a far da spalla alla performance di De Luigi appare chiaro che "Tiramisù" costruisce la propria identità su una dimensione favolistica che valorizza le movenze cartoonesche del suo protagonista e che in parte alleggerisce certe zavorre caricaturali scaturite dagli interventi di Angelo Duro, iena televisiva trasformata per l'occasione in un lucignolo contemporaneo. Ma il peccato più grosso di un film come Tiramisù è quello di non riuscire a produrre uno scarto tra l'attore e il regista, omologati da un prodotto che non produce sorpresa rispetto a quanto già sapevamo a proposito di Fabio De Luigi.
pubblicato su ondacinema.it
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