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GirlHouse

Regia di Trevor Matthews vedi scheda film

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La recensione su GirlHouse

di scapigliato
9 stelle

Quando si cerca di fare il punto sullo stato di salute del genere horror ci si impantana spesso e volentieri su questioni troppo alte, assunti, valenza politica, politica dello sguardo, innovazioni e originalità. Si perde di vista il discorso mitico che sottace a tutte le narrazioni, comprese quelle della paura, del disgusto e della perturbazione. La ricorsività dei modelli classici, il ritorno del racconto mitico, la ripetizioni di strutture narrative, tipologie d’intreccio, temi, motivi e figure di riferimento, sono alla base dello sviluppo perpetuo del cinema e della letteratura di genere. Senza la ripetizione e riproposta del mito, e quindi dei mitologemi e mitemi che lo compongono, l’uomo non saprebbe più raccontarsi.

In questo contesto è più che interessante l’esordio alla regia di Trevor Matthews, attore, autore e produttore canadese e stretto collaborate del regista e amico Jon Knautz, per il quale ha scritto, prodotto e interpretato corti e lungometraggi fin dal 2004, tra cui alcune perle come Still Life (2005), Jack Brook: Monster Slayer (2007), The Shrine (2010) e Old West (2010).

Siamo sempre nel contesto delle produzioni semiprofessionali a buon budget in cui lo scivolone amatoriale è sempre in agguato – vuoi in sceneggiatura, vuoi nella recitazione, vuoi nella tecnica di ripresa – ma GirlHouse (2014) riesce davvero ad essere qualcosa di diverso e originale nonostante resti fortemente agganciato agli slasher classici del periodo d’oro.

Di classico c’è la presenza dello psycho killer regolarmente mascherato, la riserva di giovane carne fresca e mezza nuda pronta per la mattanza, il tema sessuale al limite del porno, il luogo chiuso e teatro della mattanza e un body count impietoso arricchito da una coreografia splatter molto realistica e truculenta. Di contemporaneo invece ci sono due elementi già abbastanza navigati dal cinema come la prostituzione via webcam e soprattutto l’utilizzo del POV come nuovo dispositivo di orrore e nuovo mezzo teorico per l’indagine sullo sguardo – in questo caso specifico sono le webcam delle showgirl e gli schermi dei computer dei loro clienti, il display degli smartphone e le videocamere di sicurezza a irrompere nello sguardo registico classico e attivare l’operazione di frammentazione del terrore in chiave post o iper moderna.

Il cinema aveva già giocato con l’orrore da un altro schermo, quello domestico di un computer dietro il quale ci sentiamo sempre a casa, sempre protetti, sempre sicuri, come Smiley (2012) interessante, ma irrisolto; o Open Windows (2014) il più teorico e complesso. In GirlHouse la regia opta per un’intrusione parca, ma estremamente efficace del nuovo dispositivo scopico e vince a mani basse.

Il film ha una serie di idee interessanti che rinverdiscono il genere slasher e lo attualizzano senza appesantirne il contenuto e la forma. L’attacco è particolarmente piacevole e azzeccato, un piccolo cortometraggio godibile anche da solo: un ragazzino abbondantemente sovrappeso fugge a due ragazzine belline che lo inseguono e lo scherzano; raggiunta una baracca isolata nel bosco lo invitano a calarsi braghe e mutande per poi deriderlo; il cicciottello scappa nuovamente e fa perdere le sue tracce e si piazza sul ponte a tendere un agguanto alla più stronzetta delle due ragazzine. La vicenda riprende diversi anni dopo quando la protagonista, Ali Cobrin, decide di entrare nella girl house: il cliente che si innamora di lei, nickname Loverboy, e che viene poi deriso dalle altre ragazze a causa del suo aspetto, non è altri che il ragazzino cicciottello dell’incipit. E ha inizio il massacro.

Ed è proprio la figura dello psycho killer il fiore all’occhiello del film. Loverboy è un omone grande e grosso dallo sguardo tonto e assente, frustrato per la sua condizione estetica e, traumatizzato da un’infanzia sicuramente non facile, ha delle turbe sessuali ossessivo-compulsive con l’altro sesso. Quando sbrocca e perde le staffe, lui tecnico elettronico, vestito della sua tuta blu da lavoro (Michael Myers in Halloween, 1978), indossa una maschera da donna dai lunghi capelli neri (Leatherface in Non aprite quella porta, 1974; e vagamente Saw – L’enigmista, 2004) e grazie alle sue conoscenze in campo elettronico e informatico riesce ad entrare nella lussuosa casa per giovani baldracche, stermina tutto il servizio di sicurezza e si dedica finalmente alla sua vendetta che sa tanto di “coitus” primae noctis.

La forza iconica di questo personaggio sta in due aspetti fondamentali: a) l’ambiguità e la turba sessuale si palesano nella tuta da lavoro (di segno maschile) e nella maschera di donna (di segno femminile); b) la forza distruttrice e implacabile con cui si avventa sulle vittime e le uccide.

Nel primo caso, l’abbinamento maschile/femminile non rappresenta solo lo scontro di due forze opposte la cui non risolvibilità genera la furia assassina, ma diventa anche uno dei principali dispositivi di disturbing della pellicola: le sue apparizioni sono rese con efficacia svolgendo appieno la loro funzione scary. Nel secondo caso, la stazza di Loverboy e la sua rabbia repressa lo trasformano in un razorback indomabile: nonostante la sua mole, Loverboy è veloce, rapido e agile, carica sulle sue vittime come un cinghiale rabbioso e le travolge con impeto distruttivo al pari del miglior Leatherface.

È in questi aspetti e in molti altri, come appunto l’uso di più schermi per agire pseudo-interattivamente con la storia, che l’esordio horror di Trevor Matthews segna uno scarto rilevante con le produzioni precedenti e caratterizzanti del genere nel terzo millennio: possessioni demoniache, bambini fantasma, home invasion, haunted house, torture porn e soprattutto l’insostenibile tecnica del POV. In GirlHouse gli operatori di attualità non sono pretesto, ma testo vero e proprio: la mercificazione digitale del corpo, il sogno di una vita al di sopra delle proprie possibilità economiche, il culto per il corpo come solo simulacro di perfezione estetica e l’impotenza affettivo-sessuale delle nuove generazioni dei nativi digitali – così va letta secondo me la dipendenza da porno virtuale a cui sono soggetti anche i due giovani protagonisti maschili del film – sono tutti elementi non accessori, ma strettamente funzionali alla creazione di senso all’interno di una modulazione narrativa di genere.

A conferma della validità del film concorrono le coreografie omicide: veloci, implacabili, granguignolesche e ovviamente con una forte componente erotica sia simbolica che iconografica – una delle showgirl muore soffocata da un grosso dildo di gomma. Inoltre, non c’è traccia di moralismi biechi e ideologici e questo aiuta a leggere GirlHouse come la semplice rappresentazione di più turbe generazionali ingestibili o mal gestite, dalla prostituzione digitale alla repressione sessuale, dalla violenza sulle donne alla cattiveria tutta femminile verso i limiti dell’estetica maschile. Nonostante il finale riequilibri gli istinti e le priorità morali, c’è poco da girarci intorno: siamo tutti colpevoli.

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