Regia di Wim Wenders vedi scheda film
"L'occhio non vede allo stesso modo del cuore."
Until the end of the world può rappresentare il capitolo finale del primo percorso registico di Wenders, quello che è cominciato dai lavori vicini alle tendenze un po’ disomogenee del nuovo cinema tedesco degli anni 70, per approdare verso una graduale sopraffazione dell’immagine a scapito di ogni senso reale in linea con un cinema molto più hollywoodiano che europeo. Resta forte il desiderio di creazione dell’immagine, di un sentimento romantico verso la storia del cinema, ammaliato dalla possibilità di un viaggio senza fine all’interno della comunicazione visiva, ma questo film che significativamente si pone fra due titoli complementari e opposti anche come riuscita (Il cielo sopra Berlino e Così lontano così vicino) più che indurre a riflettere sul destino del cinema sembra invece consegnarsi ad un futuro che ne ridurrà le potenzialità per cementarne le caratteristiche più disimpegnate e di facile presa per il pubblico. Dall’anno di uscita del film (1991) ad oggi, possiamo constatare che Wenders ha mantenuto un’attività fertile ed eterogenea verso direzioni diverse, con risultati magari alterni, ma alla costante ricerca di un’ulteriore differenziazione da quel momento che si pone come uno snodo verso il quale ripartire alla volta di una nuova identità. Until the end of the world rimane un affascinante fanta fumettone con una colonna sonora fra le più belle ed invadenti che si siano mai sentite, costruita apposta per la lettura facile ed immediata, per un’aderenza completa alla cultura del videoclip che ha inflazionato e condizionato il decennio precedente. In un ormai superato futuro (1999) corredato da una tecnologia rudimentale, la protagonista Claire Tourneur, interpretata da Solveig Dommartin che fino alla sua prematura scomparsa sarà compagna e musa indiscutibile del regista, viene coinvolta in un traffico di denaro frutto di una rapina, mentre il pianeta è in preda al caos per un’imminente esplosione nucleare. Incontrerà Sam Farber (William Hurt) che orienterà la vita della donna verso un avventuroso viaggio per il mondo registrando immagini che riassumano il senso dell’esistere. La loro forza di trasmissione se supportata dall’autenticità e dal cuore arriverebbe a ridare la vista perfino ai ciechi. Il padre di Sam è infatti uno scienziato che si dedica ad un progetto con quella finalità, in un laboratorio sperimentale in un angolo sperduto del deserto australe, e la madre è affetta da cecità. Il discorso meta cinematografico appare fin troppo chiaro, l’immagine e la sua copia ci stordiranno, mentre la riproduzione autentica attraverso il ricordo e soprattutto la conoscenza e la memoria potrebbe salvare l’uomo dal non essere più in grado di vedere alcunché. Il film appare come un debordante collage visivo, infarcito di citazioni e di riferimenti, se nella prima parte il racconto si frammenta fino a diventare poco omogeneo e incoerente, possiede anche un ritmo e una fascinazione che non semina indifferenza, ma prepara forse in modo poco consueto ad una seconda parte più didascalica e riflessiva. In realtà, l’inizio, dove si susseguono incontri, fughe, viaggi conditi da spunti ironici, forniscono un tributo alla leggerezza e alla sdrammatizzazione che riportano la memoria a certe dinamiche della nouvelle vague, circa la meccanicità dell’interpretazione a cui non corrisponde neanche troppo l’azione conseguente, senza fornire spiegazioni e giustificazioni alla storia, o su di una semplice adesione psicologica verso i protagonisti più simili alle impersonificazioni del noir. Il regista crea un contrasto simbolico continuo, dal più facile legato all’ambientazione cioè dalla frenesia delle metropoli alla desolazione desertica, all’indefinitezza dei ruoli specifici nel racconto, alle funzioni stesse dei loro sentimenti e delle loro relazioni. Come se Wenders in apparenza volesse sottolineare una rappresentazione solo superficialmente convenzionale ma che invece se ottiene la giusta attenzione rivela la sua natura giocosa ma anche interrogativa. Di certo dobbiamo concedere al regista di avere anticipato quasi inconsapevolmente un fenomeno di intrusione dell’immagine di cui non se ne potevano prevedere l’impatto e le conseguenze, di cui il film resta tutto sommato un testamento profetico abbastanza contenuto.
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