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Frantic

Regia di Roman Polanski vedi scheda film

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La recensione su Frantic

di lorenzodg
8 stelle

     “Frantic” (id., 1988) è il dodicesimo lungometraggio di Roman Polanski, girato dopo il (quasi) deludente “Pirati”, all’ombra della Torre Eiffel con cadenze e modi tipicamente in stile hitchcockiano. Un film di schiarimenti e vedute (in)volute rispetto alle pellicole di genere dove ogni inquadratura e appunto di macchina da presa riaccende l’entusiasmo e tiene la corda allo spettatore con fine intelligenza e sagacia. Un Polanski avveduto e rannicchiato tra un albergo, vie limitrofe, un piccolo attico, delle scalinate, un parcheggio sotterraneo  e un lungo Senna finale dove lo sguardo si coglie dietro un finestrino chiuso con uno sguardo puntato verso l’alto della Torre.

     All’ennesimo giro di pellicola, lo spettatore rimane rinchiuso tra chiaroscuri incrociati, ditackt di parole, telefonate in movimento e finestre in testa: mai dimenarsi tra rituali risaputi e ingegnose vie d’uscita…tutto è confezionato con normale alchimia e senza spocchiose ridondanze gialle. Un cuore che apre se stesso dietro a un filo che scorre sempre e si riannoda in un finale eccelso (ed eccessivo) con rimpasti narrativi (forse) non voluti e triste facce che si svegliano da un sonno (di un fuso orario).

     Pellicola piena zeppa di riferimenti cine di alto livello dove ogni foto impressa rimarca e ridivide il cinema stesso di Polanski: transito di demarcazione, in questo film il regista tende a darsi una risposta ad ogni devozione immaginifica impressa nel proprio sito-intimo. Un modo di ripresa semplice efficace dove ogni movimento dall’alto in basso e viceversa denota una chiusura-apertura del cassetto delle memorie e del senso onirico di qualsiasi mondo nascosto.

      La storia del chirurgo di San Francisco in terra straniera è uno schema narrativo risaputo (e raccontato da registi vari) ma per Polanski è un pretesto per distogliere(si) il passato nel presente. Quando il suo vivere era collegato nel nuovo mondo e quando ogni tocco registico rendeva giovanile ogni suo gesto e, soprattutto, quando il suo vivere era ‘irriverente’ come ‘scortese’ in un paese sconosciuto e in un suo intimo (personale) ancora conosciuto. La storia della sua vita in terra straniera è stata diversificata, esaltata, fustigata, teatrante, tempestosa, sibillina e, tantomeno, irriverente. Esaltazione viva di un vivere fuori d’età e compreso di sfacciati modi: amore e sesso in libero modo in libertà non accertata. Ecco che l’uomo a Parigi è ciò che ogni dove si riscontra e si specchia con se stesso.

     Il chirurgo Richard Walker (Harrison Ford) e la moglie Sondra Walker (Betty Buckley)  sono sposati da vent’anni (dal 1968: un anno di chiusure vecchie e aperture più che libere di sempre, non casuale e mai vuoto di memorie) e si ritrovano a Parigi nel 1988 per ‘assaporare’ una seconda luna di miele (non certo di ‘fiele’ dove il regista si misurerà nel film successivo).

     Sembra tutto ordinario e filare liscio… ma la ruota a terra del taxi fa presagire qualcosa di strano. Uno scambio di valigia e una statuetta come custodia segreta tramano la storia: la scomparsa inaspettata di Sondra nasconde diverse ipotesi ma il mistero è oltre confine e respira di armi speciali (al di fuori della storia breve e banale di due personaggi in trasferta di piacere).     L’intreccio (dislocato a più livelli) trova un aiuto nella ragazza di strada (e di locali) mai frequentati e di un’indagine mai seria. E il finale che aspetti vuoi (mai) che non arrivi. Arriso a pellicole convenzionali una girata a Parigi come non mai e una sparatoria (credibile) dentro un lungo-Senna desolante con una Torre Eiffel che osserva la ripresa. Un finale delittuoso e inespressivo, vitreo e mesto. Una città ospitale che diventa inospitale per uno scambio (di personale). 

     Un film di riferimenti adocchianti l’immaginario del regista e di altri dove i numeri e le caselle hanno un preciso senso an(to)alogico. Il quarto piano dell’albergo (dopo ‘l’inquilino del terzo piano’), la camera 402 da soqquadro (strano che dici tra le ore tre e il terzo piano in mezzo),  le ore dieci (“Che ore sono?” chiede Richard al ragazzo dell’albergo quando porta la colazione in camera) cioè l’ora in cui la sveglia è d’obbligo e di ‘calma piatta’ (‘Ore 10 calma piatta), il quarantasette (le prime due cifre di telefono del locale che frequenta’ ….sono memoria di detti portafortuna ma anche di anatemi mortuari –’47 morto che parla’-), le tre volte del camion rifiuti (dopo la presa da schifo meglio scappare in ripresa lontana per scandire meglio la ripresa), il numero dei morti ammazzati (tra Dedé e Michelle il cerchio si chiude) come chiosa incastrante di fatalità allungata e di un respiro ultimo, l’abbraccio unico finale (nel taxi) a rimando di filmoni generosi e di claustrofobie atterrite, la ripresa in rincorsa (titoli di testa) nella voglia di entrare nella storia finta, l’indietreggiare della ripresa finale (e panoramico) nella fretta di uscire da un incubo, la valigia copia (ma sembra quella vera).

      Visto la prima volta all’Imperiale (Bo), chiuso da qualche anno e luogo transitato in altre mansioni di vendita spicciola (alla sua prima uscita), resta con gli anni un film da gustare ogni volta con intelligenza e fine arguzia da spasso pre-serale (e non solo).

      Questo Polanski rincuora e distoglie lo sguardo da seconde serie e da immagini rituali imbruttite oltre il dovuto. Quando una storia ordinaria diventa incubo e ciò che rivedi in uno (stra)ordinario meriggio (rituale) dentro una pellicola di rango superiore tra derelitti registi (di oggi) e prime (subordinate alla spazzatura) del Natale che ricordi (per la festa) e non ricordi per l’immaginario che stenta (di molto) a farsi largo, l’obiettivo è stato raggiunto.

Cast

Harrison Ford: commisurato e preciso, un basso profilo molto efficace.

Emmanuelle Seigner: prima al cinema con fascino e naturalezza; recitazione divertita.

Musica

Ennio Morricone: di grande impatto, incisiva e superba.

Grace Jones: “Libertango” (di A. Piazzolla) viene cantata nel film col titolo di “I’ve seen that face before” .

Fotografia

Witold Sobocinski: Effetto delle luci e delle ombre ben orchestrate con la storia (aveva lavorato col regista nel precedente ‘Pirati’).

Regia e sceneggiatura

Roman Polanski: di caratura come si conviene; la sceneggiatura è fiscale nel finale.

Voto 8.

 

 

 

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