Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
I Dardenne, forse non all'altezza dei loro film migliori. In ogni caso, un signor film.
Nello studio medico della dottoressa Jenny Davin (Adele Haenel), alla periferia di Liegi, un giovane stagista fa del suo meglio per imparare il mestiere non facile di curare i malati. Jenny mal ne sopporta l’eccessiva emotività, poiché è convinta che il medico dovrebbe imparare a non farsi coinvolgere dalla sofferenza dei pazienti, dal momento che solo un giusto distacco mantiene lucidi e attenti alle loro necessità. Jenny è severa e rigida con lui, ma lo è anche con se stessa: è questo il suo modo di essere, che va ben oltre la vita professionale. Per chi vede il film, infatti, questo è l’unico elemento che ne connota la personalità dall’inizio alla fine: la giovane dottoressa si sposta dentro e fuori Liegi; avvicina uomini e donne degli ambienti più diversi; si incontra e spesso si scontra con personaggi ambigui, omertosi, minacciosi, senza mai abbandonare l’ imperativo categorico della coerenza con i propri princìpi che le dettano il comportamento. Di lei non si sa niente all’infuori di ciò che accade sotto i nostri occhi, durante tutto lo sviluppo del racconto: i due registi non parlano del suo vissuto familiare, né di quello sentimentale; non esiste un prima o un dopo rispetto alla narrazione che scorre sullo schermo; esiste lei, creatura cinematografica inseparabile dalla sua coscienza morale, che è rappresentata con insistenti primi piani del suo volto e dei suoi occhi, che indagano, interrogano, scrutano, cercano di leggere e interpretare altri sguardi per ricostruire i piccoli frammenti di verità che possano finalmente darle pace. Il suo tormento nasce dal senso di colpa, per non aver aperto (mentre ancora era lì), un’ora dopo il termine dell’orario di visita, il proprio studio a una donna che la polizia avrebbe trovato morta, forse di morte violenta, il giorno successivo. Non era una sua paziente; era una prostituta nera di difficile identificazione, che forse aveva cercato di fari aprire sentendosi inseguita. Forse, sarebbe bastato farla entrare per salvarle la vita.
Al rimorso per essersi negata a lei, Jenny unisce una profonda volontà di espiazione: si sarebbe assunta il compito di cercarne l’identità per offrirle almeno una targhetta al cimitero, perché potesse vivere nella memoria di qualcuno.
Come fossero andate le cose, si saprà solo alla fine del film, che assume a poco a poco le connotazioni di un noir molto teso, perché il mistero intorno a quella morte diventa presto una detection che Jenny conduce, anche a proprio rischio, negli ambienti più squallidi e sordidi delle periferie delle città belghe, in un mondo popolato da ambigui figuri che hanno interesse a tacere, che fingono di non sapere o che mentono per non compromettere la loro rispettabilità, in famiglia o nell’ambiente di lavoro. La voglia di chiarezza di Jenny, così come la sua fermissima determinazione ad andare fino in fondo all’indagine che ha intrapreso, lasciano emergere perciò squarci di marginalità periferiche, di squallore e di povertà nei quali è ben riconoscibile la griffe dei fratelli Dardenne, come sempre molto attenti a non isolare i loro personaggi dal contesto sociale in cui si muovono. La pellicola, forse, si è giovata del taglio di sette minuti che i due registi le hanno apportato, riconoscendo implicitamente la validità di alcune osservazioni critiche che erano state mosse nei loro confronti dopo la proiezione di Cannes, che non era stata proprio un successo. Nell’insieme, ora è visibile un buon film, raccontato in modo scabro e lineare, ottimamente interpretato da una magnifica Adele Haenel.
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