Regia di Jean-Pierre Dardenne, Luc Dardenne vedi scheda film
E quindi sì, i Dardenne, anche se nell’ambito di quello strato antropologico della periferia belga in cui hanno sempre indagato, stavolta hanno scelto un vero thriller, che avrebbe potuto essere un vero e proprio poliziesco se avessero preferito come protagonista una poliziotta e non una dottoressa.
Il fatto che Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno impiegato un decennio per decidere di girare questa storia, e a quanto pare con qualche ripensamento, è un particolare molto indicativo e lo si intuisce dalla sorpresa che può cogliere i loro estimatori, a cominciare dal sottoscritto, a proposito della natura del soggetto e dalla contaminazione del loro ben frequentato genere drammatico con quello tipicamente thriller. Infatti tutto gira intorno all’indagine sulla morte sospetta di una immigrata di colore condotta dalla giovane protagonista, ben più efficace di quella parallela ma improduttiva della polizia belga di Liegi, ove si svolgono i fatti. Se come al solito ritroviamo i visi conosciuti che abitano da sempre i film dei due fratelli, a cominciare da Jérémie Renier per finire con Olivier Gourmet e Fabrizio Rongione in questa occasione in ruoli più secondari, stavolta il ruolo femminile che frequentemente è al centro delle loro trame è affidato ad un’attrice non molto nota in campo internazionale, la ventisettenne Adèle Haenel, dopo che in questi anni abbiamo visto la bravissima Marion Cotillard (Due giorni, una notte), Cécile de France (Il ragazzo con la bicicletta), Arta Dobroshi (Il matrimonio di Lorna), Déborah François (L'enfant - Una storia d'amore), fino alla indimenticabile Rosetta di Émilie Dequenne nel ‘99. Quindi sempre un viso femminile al centro della scena e perno centrale della storia, sempre donne con il loro fardello sulle spalle che i Dardenne seguono in maniera quasi asfissiante trasmettendo senza pausa tutte le loro ansie direttamente allo spettatore, che così si ritrova partecipe delle disavventure come fosse lì accanto. Usando, come al solito, la loro macchina da presa in spalla con il viso in primo piano per trasmetterci ogni reazione, ogni emozione.
Costante invece il disagio di queste donne, a volte fisico ma sempre mentale per le peripezie che la vita non risparmia loro. Un disagio che, nell’ultima opera dei registi belgi, diventa una vera e propria ossessione perfettamente leggibile nello sguardo attonito, perplesso, indagatore di Jenny Davin, una giovane dottoressa molto valente che accudisce – termine davvero appropriato date l’accuratezza e la disponibilità – i suoi pazienti con dedizione e perizia. Un medico così dotato che una importante clinica decide di assumerla con tutti gli onori all’interno della struttura e che lei rifiuta per non lasciare la sua clientela, ma anche perché – e forse principalmente - le succede un imprevisto che l’ha sconvolta. Ed è questo imprevisto l’elemento “giallo” discostante dal resto della filmografia dei due belgi, la vera novità che non nego di avermi sorpreso e non poco: una ragazza di colore viene trovata morta dopo che Jenny non l’ha voluta ricevere nel suo studio e dove evidentemente cercava rifugio. Il senso di colpa – ecco qui la molla, il forte scombussolamento – che la pervade dal momento che viene a sapere della malasorte capitata alla immigrata non la lascerà in pace nei giorni a seguire e mentre la polizia, come usano dire i giornali, brancola nel buio, lei segue l’istinto animalesco con cui annusa le persone che forse hanno avuto a che fare con l’ignota ragazza, le guarda dritto negli occhi, percepisce i segreti che nascondono e intuisce che la pista che segue è quella giusta. È nel suo sguardo la chiave di lettura della trama, sono i nostri occhi di spettatori nei suoi, sono quegli occhi che non fanno trapelare nulla ma che invece indagano fin dentro alla mente del giovane studente che ha mal di stomaco, del padre irrequieto di quest’ultimo troppo nervoso per non essere implicato nella faccenda, dell’anziano che ha avuto un incontro “ravvicinato” con l’immigrata, dell’impiegata dell’internet point frequentato dagli immigrati africani. Sono in definitiva i due terminali della mente di Jenny. In fondo, cosa predomina nel poster del film? I suoi occhi chiari che fissano chi lo guarda.
Jenny è una strana ragazza in fondo. Fondamentalmente anaffettiva, è una giovane senza relazioni: non ha amici, non esce dopo il lavoro, non frequenta nessuno, non le telefona alcun parente, non ha un’amica a cui confidare i suoi problemi! E così asettica, professionale e distaccata che non sorride a nessuno, e nessuno la cerca se non per motivi professionali. Fino ad essere perfino scostante con un giovane studente di medicina stagista presso di lei, anche se solo per lui avrà – ma solo per telefono, senza esagerare! – una smorfia che sembra un sorriso, forse. I registi non ci mostrano cosa fa al di fuori dell’orario di lavoro e a quanto pare ultimamente dopo avere finito le visite nello studio e a domicilio va a letto e non più a casa ma nello studio stesso. Il suo lavoro è diventato ben più che una missione: dopo non aver aperto la porta alla sconosciuta clandestina nera il suo lavoro di medico si è tramutato in una ossessione, perché ricostruire gli ultimi minuti di vita della ragazza da soccorrere “è” la sua ossessione e quindi meglio non allontanarsi troppo: nel suo studio aspetta tutti i clienti come se aspettasse ancora che quella povera ragazza torni a suonare al citofono per poterla salvare, finalmente. Ogni volta che sente il campanello si avvicina al citofono quasi con ansia, forse sperando in un miracolo che ponga un rimedio lenitivo al suo malessere intimo. Nel frattempo i soggetti che la circondano sono tanto infastiditi dalle sue insistenti ricerche che la minacciano, la insultano, la maltrattano. Sta rischiando e ciò vuol dire che è vicina alla verità.
E quindi sì, i Dardenne, anche se nell’ambito di quello strato antropologico della periferia belga in cui hanno sempre indagato, stavolta hanno scelto un vero thriller, che avrebbe potuto essere un vero e proprio poliziesco se avessero preferito, come pareva anni fa negli studi preliminari del soggetto e nelle loro iniziali intenzioni, come protagonista una poliziotta e non una dottoressa, giovane e indifesa. Ed è proprio per questa scelta “gialla” che, pur essendo un film all’altezza delle attese, ha sorpreso e non credo solo me. Ma in definitiva il risultato non credo sia diverso. Perché il loro cinema comunque colpisce sempre.
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