Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Quando gli si fa notare che, almeno a livello cinematografico, il connubio con il discusso psicanalista romano Massimo Fagioli non ha prodotto granché di buono, il buon Marco si mette sempre sulla difensiva. D’altronde, per quanto si sia allontanato dai fagiolini, è indubbio che quell’esperienza gli abbia lasciato un segno importante, e, conoscendo la passione lucida con cui Bellocchio fa ogni cosa, si capisce bene perché non rinneghi e non permetta di infangare quel periodo della sua vita. Ma, nonostante tutto ciò, La condanna è un film oggettivamente improponibile. Tralasciando l’ambiguità di fondo del tema, su cui francamente è meglio non rimuginarci più di tanto perché non ne varrebbe la pena, sono proprio la struttura e la narrazione del film a non convincere per nulla.
A partire dai dialoghi ridicoli ed improbabili, basati su elucubrazioni pseudo-psico-filosofiche tendenti al metafisico concreto, o molto più semplicemente all’assurdità, fino all’organizzazione del racconto, fondata sull’antitesi e sulla contraddizione, sull’indeterminatezza e sulla sfacciataggine, per non parlare della rappresentazione di personaggi al di là qualunque concezione di realtà (l’architetto guru incompreso, la ragazza vittima provocatrice, il magistrato confuso pilatesco, la moglie con disturbo bipolare). Un pasticcio inverosimile di cui non riesco a salvare niente, compreso l’epilogo campestre che sembra fatto apposta per l’esportazione (fu Orso d’Argento a Berlino, nonostante sia una delle peggiori prove di Bellocchio), se non le belle, incessanti e sprecate musiche di Carlo Crivelli.
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