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La condanna

Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film

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La recensione su La condanna

di maurizio73
4 stelle

Rimasta chiusa all'interno di un museo alla fine dell orario di apertura, giovane e bella studentessa viene sedotta e posseduta da un  maturo professore di architettura che la sorprende da sola. Quando all'alba questi rivela in realtà di essere in possesso delle chiavi, sentendosi tradita e una volta fuori, lei lo denuncia per violenza carnale. Nel processo che ne segue, pur dichiarandosi innocente, viene comunque condannato e imprigionato.
Nutrendosi delle angosce crepuscolari che animano la penombra di un silente spazio espositivo, Bellocchio cerca di materializzare gli oscuri spettri di una sensuale tensione estetica, le sfuggenti prospettive di una plastica volontà di creazione dalla materia informe di un desiderio inespresso (represso), (quello della donna, quello dell artista?) mettendo in scena la tragica pantomima di crudele gioco di paura e desiderio, la estenuante coreografia di una ferale pulsione erotica.  Questa strenua ricerca di una impossibile sintesi tra arte e natura, tra creazione e procreazione, tra volontà e desiderio trova una angosciosa trasposizione solamente nel primo, spiazzante episodio dell assunto narrativo, virando nella seconda parte (quella del processo e dei dilemmi esistenziali del giudice istruttore) verso le cerebrali astrazioni di una astrusa teoria della creazione, nel complesso e indecifrabile gioco di ruoli tra l'uomo (creatore o modellatore) e la donna (creatura o modello), tra l artista ed il blocco informe di una materia grezza da cui rischiare di trarre le forme scandalose di una inaccettabile verità sociale e psicologica.
Operazione rischiosa quella dell'autore emiliano, schiacciata dal peso di una soverchiante ambizione filosofica e dalla insostenibile gravità di una viscerale misoginia, codificata dalla teatrale verbosita di un linguaggio involuto e difficile e dalla mesta cupezza di un registro  che oscilla continuamente tra il declaratorio ed il grottesco, smarrendo così ogni plausibile  efficacia del messaggio e delle intenzioni. Illuminato dalla ineffabile e magnetica  presenza scenica di un carismatico vittorio mezzogiorno e dalla grigia ottusità della maschera di 'uomo qualunque' rappresentata da Andrzej Seweryn il fim smarrisce la sua residua credibilità nei deliri tragicomici di un finale onirico e irrisolto.
Scritto a quattro mani dal regista e da Massimo Fagioli da un loro soggetto, è a suo modo rappresentativo di una produzione che rielabora le istanze ed il formalismo del cinema esistenzialista degli anni 60'-'70, dove astrazione e ricerca psicologica erano le chiavi di un linguaggio nuovo che rompeva con la tradizione neorealista precedente (Antonioni,Pasolini,Zurlini), qui decisamente fuori tempo massimo. Particolarmente suggestive le scene in interno girate negli spazi espositivi di Palazzo Farnese. Ritratto in chiaroscuro delle indicibili pulsioni umane.

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