Regia di Paul W.S. Anderson vedi scheda film
Da zombie a clone a replicante a (letale) barzelletta di sé, il film attraversa mesto tutti gli stadi della non-vita cinematografica.
Perduto completamente qualsiasi residuo di dignità – sempre più un miraggio, puntata dopo puntata – cotanto “capitolo finale” (le virgolette dubbiose sono d'obbligo quanto la CGI, o come il manuale di regia bayiana al quale s'abbevera ebbro il peggiore degli Anderson possibili) non può che cercare di tornare alle origini, carpirne la formula per ripetere gli effetti.
Peccato non ci sia antidoto all'idiozia imperante – difficile dire dove dilaghi maggiormente, se nella scrittura tracimante pochezza e pressapochismo o nella messa in scena strafatta di cure Ludovico a base di visioni videoludiche e onanismi da smanettoni –, peccato ancora non ci sia una Alice che attraversi lo specchio pixelato e ci salvi dall'orda di figuranti canini ma soprattutto dall'immane dose di scemenze assortite (mhmm ... un contatto ravvicinato con Milla non sarebbe male, peraltro).
Una saga in odor di putrefazione da tempo, Resident Evil, un processo irreversibile giunto al sesto – “definitivo”, comunque terminale – capitolo: il gra(da)sso colpo di scena – fra le altre cose, intuibile anzitempo – è un sigillo tombale che certifica la marcescenza di idee, lo stato zombesco del brand.
Il senso dell'opera, dopotutto, risiede e ha valore unicamente nella mera riproposizione non solo del tipico côté visivo-auditivo ma soprattutto dell'autocelebrazione: l'incipit, con voce narrante di Alice («la fine della mia storia») e immagini di repertorio, funge da spiccio riepilogo per non adepti e da funebre epilogo nostalgico e liturgico per fan; mentre il percorso narrativo è costituito da passi sempre uguali, sempre obbligati e sempre sospesi in una purulenta dimensione tra l'innocuo e il ridicolo, e l'“intuizione” è, banalmente, la (ri)discesa nel famigerato 'alveare” della Umbrella Corporation che aveva fatto le fortune del primo episodio.
Ritorno a Raccoon City e alla “Regina Rossa”, dunque (oltre alla Claire e al dr. Isaacs raccattati per strada): il problema non è tanto l'insopprimibile sensazione di déjà-vu costante, quanto la pessima realizzazione.
Un lavoro di risulta svolto in modo forzato e svogliato, stanco, come fosse l'opera di un condannato a morte (stessa aria stampata sulla faccia della povera Milla Jovovich): l'attenzione passiva, parimenti svogliata, è una conseguenza inevitabile di un intrattenimento nullo, pur iniettato dalle immancabili, estenuanti dosi di esplosioni-ralenty-corpo a corpo-ammazzamenti-mostri-musica a palla, unico e solo sostegno (caduco, fallace, incredibilmente scarso) di una “fortezza” estetico-narrativa-simbolica in stato di avanzata decomposizione.
Ancora peggio – ma nemmeno questa è una novità – il trattamento subito dalla (fu) eroina Alice/Milla: il personaggio è ridotto a balordo clone di sé e della propria iconicità, l'attrice – come detto, tutt'altro che motivata, e la capiamo pure – smarrisce senso, orientamento e persino vera carica erotica (riguardarsi i primi due film della serie, please).
L'“attesissima” risoluzione dell'infinito gioco, condita di colpi a effetto, colpi di scena (balordi, tutti) e colpi di sonno, tanto da desiderare iniezioni di virus T, nonché la fiera riaffermazione a cose fatte («Il mio nome è Alice») non tolgono alcun dubbio, anzi: Resident Evil finisce male, molto male.
E potrebbe non essere finita affatto.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta