Regia di Claudio Rossi Massimi vedi scheda film
Sapevamo già di quella che per descrivere gli effetti provocati dalla vista di un’opera d’arte aveva trovato il modo di rifarsi a un episodio della vita del celebre scrittore francese; e pure dell’altra, che aveva scelto la capitale della Svezia per dare un titolo alla malsana empatia delle vittime nei confronti dei propri carnefici. Eravamo invece ignari circa ’esistenza della sindrome che affligge il protagonista del film di Claudio Rossi Massimi intitolato non a caso “La sindrome di Antonio”. La patologia del titolo è invero un ‘invenzione del regista- peraltro autore del libro dal quale il film è tratto - utile a descrivere l’ossessione che al conseguimento del diploma spinge il ragazzo a partire alla volta della penisola ellenica per ritrovare i luoghi dove Platone e i suoi colleghi elaborarono i pilastri del pensiero moderno. Considerando che la storia è ambientata nella Grecia degli anni settanta in cui il regime dei colonnelli resisteva nella maniera più bieca e violenta allo spirito di cambiamento imposto dalle istanze sessantottine, si capisce quasi subito che la sintomatologia del titolo non è il motivo centrale della storia ma piuttosto il pretesto per innescare una serie di pensieri, comportamenti e azioni che permettono a Massimi di raccontare di una generazione - quella di Antonio e dello stesso regista - destinata a farsi carico del fallimento delle utopie di un’intera epoca; e, in particolare, di quella voglia di cambiare il mondo che emerge dal desiderio di conoscenza, di giustizia e di libertà presente nei discorsi del lo studente come pure in quelli di Maria, la ragazza greca che l’accompagna nel suo viaggio di scoperta e di cui finirà neanche tanto segretamente per innamorarsi.
Strutturato come un film on the road, con le diverse tappe del tragitto destinate a corrispondere ai tasselli del percorso di formazione del protagonista, “La sindrome di Antonio” emula i classici del genere a cominciare dal capolavoro di Jack Kerouac, da cui Massimi eredità persino l’utilizzo della macchina come mezzo di locomozione e l’idea di spostarsi all’interno di un territorio geograficamente definito. A differenza di questi modelli il regista sceglie però una forma che sembra voler rispecchiare l’ingenuità del protagonista, dando vita a un favola morale che nella sua ricercata semplicità si rivolge soprattutto a chi nei settanta non era ancora nato. Con il risultato di appiattire psicologie e contenuti su un didascalismo di stampo televisivo che non rende merito all’ultima presenza sullo schermo del grande Giorgio Albertazzi, la cui aristocratica figura è comunque esaltata da un ruolo tanto ricco di significati quanto privo di battute. Almeno in questo ambito “La sindrome di Antonio” è destinato a entrare nella storia del nostro cinema.
(icinemaniaci.blogspot.com)
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