Regia di Paolo Genovese vedi scheda film
Il gruppo di famiglia in un interno è uno scenario che il cinema italiano conosce molto bene per averne fatto uno dei luoghi principe di quella commedia italiana che a partire dagli anni ottanta ha trovato nella dinamiche interpersonali, considerate nell’unità di spazio e di tempo circoscritte dal perimetro delle mura famigliari, uno dei modi per descrivere il vuoto di valori derivato dal crollo delle utopie sessantottine e dal terrorismo dei cosiddetti anni di piombo. Seppure con le derive che hanno spinto la critica a valutare in maniera negativa la maggior parte di quella filmografia, è anche vero che l’insistenza verso le vicende di personaggi ripiegati su se stessi e avulsi dal contesto sociale, almeno inizialmente, era dettata dallo smarrimento intellettuale ed emotivo seguito agli sconvolgimenti del periodo in questione.
Da qui il pregiudizio iniziale nei confronti di un film come “Perfetti sconosciuti” che, alla pari di altri passati nelle sale (“In nome del figlio” e “Dobbiamo parlare”) si presentava come l’ennesima storia di amicizie destinate a deflagrare durante la consumazione del desco serale. A differenza dei colleghi e pure di se stesso ( “Una famiglia perfetta” uscito nel 2012 non si discosta dai riferimenti appena citati ) Paolo Genovese costruisce il film su un’espediente capace di dare forza all’attualità dell’assunto, poichè la decisione dei commensali di condividere gli sms e telefonate ricevuti nel corso dell’incontro soddisfa e la necessità di agganciarsi al cosiddetto spirito del tempo, rappresentato dall’invadenza del mezzo tecnologico sull’esistenza delle persone e in particolare su quelle dei protagonisti, messe in forse dalla possibilità di essere connesso con il resto dell’ecumene, e al bisogno che ha il cinema di dare voce ai recessi dell’anima evitando di diventare letteratura o ancora peggio didascalico.
Nel caso di “Perfetti sconosciuti” ci riesce grazie a una scrittura in grado di rendere credibile il succedersi delle emozioni che trasformano l’allegria in tragedia, e in virtù di dialoghi capaci di dare vita a una terapia collettiva di cui lo spettatore finisce per sentirsi parte in causa, omologato come i personaggi alla dittatura del progresso e alla pari di loro depositario del doppio fondo esistenziale che impedisce di sentirsi estraneo a quello che succede sullo schermo. Se a ciò aggiungiamo la sorpresa conclusiva che produce un finta catarsi, rendendo l’epilogo solo in apparenza meno amaro, possiamo dunque affermare che per la commedia italiana esiste ancora qualche possibilità. Senza contare che, se il talento degli attori ingaggiati era cosa appurata non lo era altrettanto la loro predisposizione a fare da spalla al protagonismo degli altri colleghi. Anche su questo versante “Perfetti sconosciuti” fa registrare un segno positivo.
(icinemaniaci.blospot.com)
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