Regia di Paolo Genovese vedi scheda film
Perfettamente conosciuta, questa (tipologia di) commedia.
Non basta una moscia intuizione - peraltro spacciata e sbandierata ai quattro venti come fosse chissà quale genialata (quando altri non è che un aggiornamento del "gioco della verità") - per deviare, anche un minimo, da collaudati schemi e consueti meccanismi.
Che l'assunto, la scintilla che fa precipitare gli eventi, sia a propulsione altamente implausibile (fantascienza, in pratica, ma da due soldi falsi), è giusto una conferma della stranota dimensione "casereccia" dell'operazione.
Rifugio sicuro (e rassicurante) con tavola(ta) imbandita delle facce giuste e di effetto garantito: il teatrino all'amatriciana - delle battute simpatiche e simpaticamente innocue, dello sfinente chiacchiericcio, degli altarini svelati, delle nevrosi a ciclo continuo, degli psicodrammi eccitati-esagerati, del "messaggio" (il cellulare «scatola nera della nostra vita»: illuminante) - è servito.
A cosa serva l'improvvisa virata sul "tragico" - piatto come lo schermo di un iPhone (il riferimento non è casuale), eccessivo per modi e tempi, inverosimile per portata - è cosa facilmente intuibile: alimentare la caciara non era più fattibile. Eppure era preferibile, se non altro qualche sparata va a segno (livello pur sempre basso, ma tant'è), in mezzo a tanti frizzi e lazzi e doppi sensi (e boutade su bottane, tette rifatte, e coppie sfatte).
L'umorismo è di grana grossa ma quasi si perdona (gli autori senz'altro lo fanno: la parola "frocio" viene detta circa centoventidue volte ma trovano il modo - bieco - di giustificarsi e autoassolversi, bontà loro); molto meno il solito, vorticoso florilegio di banalità - dette, mostrate, sbattute, eclissate - sulle problematiche relazionali.
Tradimenti, piccole bugie, palle gigantesche, sotterfugi spicci, segreti inconfessabili prontamente confessati, isterismi a comando, stacchi "introspettivi" (ridicola fino all'oltreleziosità la telefonata padre-figlia), colpi di scena a ripetizione manco fossimo in un giallo dopato (di quelli così scadenti a cui guardi con tenerezza): 'na traggedia. In interni.
In cui finiscono coinvolti - tra i soliti noti intercabiabili (assemblati un po' a casaccio) -, un Battiston apparso svagato e una Rohrwacher al debutto in una (pseudo)commedia: il talento si vede comunque.
Non nel manico, ovviamente (Paolo Genovese regista e cosceneggiatore assieme ad altre quattro "teste": mancava soltanto il fruttarolo sotto casa).
Come finale alla "Sliding Doors" certifica, se mai qualcuno avanzasse dubbi: vorrebbe tanto essere una riflessione seria sulle ipocrisie che regolano rapporti e famiglie, invece è solo una trovata estemporanea ed in senso consolante, un escamotage da fumo negli occhi, una sterzata non supportata da alcun elemento valido (di scrittura, di messa in scena, di rappresentazione, di lettura).
Non dopo tutto quel casino.
In sintesi: cena tra amici-con giochino idiota che scatena il putiferio-ma 'bboni se scherzava.
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