Regia di George Roy Hill vedi scheda film
“The Sting” è una pellicola immensamente popolare e venerata, e non ha bisogno di presentazioni. Dopo il grande "Butch Cassidy" George Hill ha pensato bene di radunare i suoi cavalli vincenti per l'opera che probabilmente rappresenta ancora oggi la vicenda truffaldina più ingegnosa, perspicace e spassosa mai stata impressa su celluloide; Johnny Hooker (Robert Redford), in lutto per la brutale uccisione del collega Luther, decide di organizzare una trappola ai danni del suo carnefice, il potente e bramoso gangster irlandese Doyle Lonnegan (Robert Shaw). John, per mettere in atto una pazzia quasi impensabile, vuole farsi aiutare da un esperto del settore: Henry Gondorff (Paul Newman). I due creeranno dal nulla una società di scommesse d'ippica in un edificio abbandonato con il supporto di alcuni specialisti, i quali studieranno a tavolino un piano impeccabile per frodare Lonnegan senza lasciare traccia. Il ritmo in crescendo, i continui colpi di scena, le interpretazioni formidabili e la riproduzione sbalorditiva della Chicago della Grande Depressione sono gli elementi cardine di una pagina della storia del cinema difficile da dimenticare. Merito altresì di una sceneggiatura brillante ed intelligente, scritta dal vincitore dell'Academy David S. Ward, il quale si è occupato anche di stilare il soggetto, e di uno dei migliori villain di tutti i tempi, il cui ruolo è stato affidato al credibile ed eccezionale Shaw, ricordato per la magnifica parte di Quint nell'originale “Lo Squalo”; caratterista straordinario e fuori dagli schemi purtroppo scomparso solo tre anni dopo le riprese del must di Spielberg. Ad ogni modo è l’energia da “buddy-movie” a dare linfa al plot; Newman e Redford , pur essendo maschere inizialmente agli antipodi, hanno una chimica che funziona alla perfezione, e, nel contempo, manovrano un proverbiale meccanismo narrativo che trascina l’astante nelle due ore del lungometraggio. “La stangata” guida l'utente attraverso ogni passo del cammino; rivela i dettagli importanti solo quando gli intrecci vanno a conclusione, evitando di ingarbugliarsi in inutili o edulcorate parentesi. E tuttavia il tono degli avvenimenti è leggero e allegro, nonostante non vengano comunque stemperati, in certe figure, sentimenti più biasimevoli quali avidità (la sagoma di Lonnegan incarna il classico tratteggio del capitalista crudele e caparbio) e vendetta. Inoltre, ad un primo acchito non si riesce a focalizzare completamente il procedimento degli stratagemmi eseguiti, per poi ricredersi o rimanere estasiati dall’imprevedibilità dei vari risvolti. La direzione di Hill, intanto, si mantiene effervescente: lavora principalmente sulla perizia degli attori, pervenendo a corroborare encomiabilmente il nichilismo e il magnetismo dei protagonisti. Ad arricchire il quadro si impone, parimenti, una colonna sonora jazz di inconsueta eleganza; gli spartiti di Scott Joplin vengono orchestrati con sobrietà e le corrette quantità in base al tipo di sequenze, o al pathos che si vuole elargire, non sfiancando quindi con un uso pletorico delle musiche d'epoca. Insomma, la mésse è un ingranaggio adeguatamente calibrato nella moltitudine delle sue sfaccettature, il quale garantisce un livello di intrattenimento pressoché ineguagliabile. La vittoria agli Oscar e ai David di Donatello (fra i tanti premi concessi), questa volta, non può che essere pienamente condivisibile.
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