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Ghost Story of Yotsuya

Regia di Nobuo Nakagawa vedi scheda film

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La recensione su Ghost Story of Yotsuya

di maurizio73
8 stelle

Il film di Nakagawa sfronda il plot originale, per concentrarsi sulla semplicità di una vicenda che trova nell'aberrante crudeltà delle passioni umane, nei richiami alla vividezza quasi pittorica di un comune immaginario folkloristico e nella efficace rappresentazione del sincretismo religioso che ne è alla base, i suoi veri punti salienti.

Dopo averne ucciso il padre, contrario al loro matrimonio, il samurai decaduto Iemon prende in sposa la bella Iwa. Consigliato dal perfido Naosuke, innamorato della cognata Sode, Iemon avvelena la moglie ed uccide l'incolpevole Takuetsu, al fine di liberarsi di lei e del figlio ancora in fasce e prendere in moglie la ricca Ume. Il piano sembra funzionare alla perfezione, ma il fantasma di Iwa ritorna orribilmente sfigurato dal veleno che l'ha uccisa per reclamare la sua giusta vendetta, tormendando Iemon e conducendolo alla follia ed alla morte. 

 

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Onryo con infante...del periodo Edo

 

Partendo dal soggetto del kizewamono di Tsuruya Nanboku IV, a sua volta  frutto della contaminazione di fonti letterarie ed orali diverse tra le quali il settecentesco Chushingura, Nobuo Nakagawa porta per l'ennesima volta sullo schermo la storia della sfortunata Oiwa, con un gusto per la rappresentazione figurativa ed un'impressionante resa delle soluzioni tecniche che sembrano nobilitare una tendenza ormai rodata per il cinema di genere degli anni '50, frutto da un lato della rinnovata libertà produttiva di un sistema delle major che si era consolidato come non mai dopo la fine dell'occupazione (e della censura) americana e dall'altro di un sempre maggiore interesse del pubblico verso prodotti di grande attrattiva sul piano delle tematiche popolari e delle invenzioni spettacolari. A differenza dei precedenti adattamenti di Daisuke, Kinoshita e Masaki, in qualche modo più fedeli al dramma kabuki, il film di Nakagawa si spoglia degli originali riferimenti al doppio tradimento del ronin decaduto (l'offerta dei propri servigi all'ex nemico Ko no Moronao e la spietata soppressione della consorte) e con esso a tutta la complessità narrativa che essi comportavano nell'economia del plot e dello sviluppo dei caratteri, per concentrarsi sulla semplicità di una vicenda che trova nell'aberrante crudeltà delle passioni umane, nei richiami alla vividezza quasi pittorica di un comune immaginario folkloristico e nella efficace rappresentazione del sincretismo religioso che ne è alla base, i suoi punti di maggiore forza. Questa operazione di make up cinematografico di una storia più che risaputa (oggi si direbbe che è un soggetto abusato) punta da un lato ad una estrema sintesi della struttura narrativa, con una vicenda che acquisisce il ritmo accelerato di eventi concomitanti e dall'altro all'assemblamento di elementi figurativi che richiamano, nella raffinatezza formale della composizione scenica, la compostezza visiva degli ukiyoe che facevano da ex-voto alle scene salienti della rappresentazione teatrale, talvolta riproducendone esattamente il quadro (la scena iniziale del serpente, quella della misera vita domestica, quella ormai celeberrima della porta girata), più spesso trasfigurandola con l'originalità di espedienti scenici che trovano, nelle soluzioni di montaggio, nelle invenzioni scenografiche e nell'uso delle luci, una dimensione palpabile dell'orrore e della follia allucinatoria in cui cade il suo colpevole protagonista. 

 

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Risultati immagini per Tôkaidô Yotsuya kaidan (1959)

 

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Assistiamo quindi ad una prima parte dove le tresche assassine ed i tradimenti incrociati preparano il terreno per l'orrore che seguirà, ed una seconda parte dove l'accumulo degli elementi simbolici (il serpente, il pettine di tartaruga, l'onryo, i fuochi fatui, gli yokai di zanzariere fluttuanti, etc.) moltiplicano l'immaginario fantasmatico amplificando fino al parossismo le ossessioni paranoiche ed il rapido precipitare della vicenda verso il suo inevitabile contrappasso (la lugubre scena finale riproduce una dimensione inferica che viene bilanciata dall'etera luminosità del nigitama con bambino alle soglie della beatitudine celeste che precede i titoli di coda, in una iconografia della maternità che ricorda curiosamente culture religiose ben più distanti). Benchè poi manchino del tutto i riferimenti al dualismo tra sodalità coniugale e culto dei defunti legato alla scena del sogno nell'eremo monastico della Montagna dei serpenti (tanto la festa degli innamorati lontani - Tanabata, che la festa della pacificazione degli spiriti - Obon, si svolgono nel periodo estivo), non viene meno il riferimento al senso di una natura che riflette nel cantare di un uccello notturno o nell'ifuriare della tempesta, l'insanabile frattura con il mondo dei vivi che reclama la sua terribile vendetta piuttosto che la concessione riparatrice di un tempio votivo.

 

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Non meno importante è il parallelo che si può tracciare sul versante della parabola storica e morale legata alla vicenda, richiamati dal contrasto di doveri e sentimenti che si riflettono sia nell'atteggiamento delle due sorelle (una esorta il marito ad ottenere la vendetta per la morte del padre proprio da chi l'aveva ucciso, l'altra che rifiuta di giacere con chi ha attentato alla vita del suo innamorato per le stesse ragioni) quanto nella crasi tra l'etica feudale che impone dignità a samurai senza padrone costretti a lavori umilianti ed obbedienza dello loro sottomesse consorti, e la crisi di valori del periodo Edo in cui la brama di ricchezza, lascivia e posizione sociale portano ad azioni esecrabili e quindi alle loro infauste conseguenze soprannaturali. La sintesi di queste contraddizioni psicologiche e morali sono il vero mototore drammaturgico di un'azione che, come nella originale forma teatrale da cui derivano, sono la commistione dei diversi domini della rappresentazione e con essi della presa di possesso sulla realtà da parte di entità immateriali che scaturiscono da un istintivo senso di rivalsa: anime vaganti nel limbo di un percorso di purificazione senza speranza destinate a pacificarsi solo attraverso l'orrore e la paura, l'angoscia e la follia, la violenza e la morte. Insomma tutti gli ingredienti di una spettacolarità orrifica che riproduce negli espedienti di una moderna messa in scena cinematografica, il patto con il pubblico che veniva stabilito con il format delle codificate rappresentazioni del teatro no prima (compreso il plot di un progressivo disvelamento dell'apparizione fantasmatica) e del kabuki dopo, entrambi in ogni caso naturali evoluzioni di una ritualità religiosa in cui questo patto e questa separazione sfumavano gradualmente nella condivisione di valori comuni indissolubilmente legati all'originale culto dei defunti. Non si tratta però di una pedissequa riproposizione di forme e temi originali (da cui Nakagawa si discosta tanto nella trama che nella caratterizzazione dei personaggi), quanto di una contaminazione tra tradizione e modernità che vede nella figura negativa di Iemon, quella più complessa di un uomo combattuto tra la meschinità delle proprie ambizioni ed il senso di una colpa irredimibile che non puo' che condurlo sul baratro della follia e dell'autodistruzione; allo stesso modo l'implacabile istinto vendicativo di Iwa (in cui taluni hanno ravvisato una metafora della deturpazione morale del Giappone devastato dall'olocausto nucleare) vive tanto nel contrasto tra i propri doveri muliebri e la liberazione di una rivalsa alla sottomissione femminile che si risolve nella vendetta effimera di un'anima destinata a non trovare la pace. Il finale per la verità dice una cosa diversa, concedendosi un epilogo più edificante (lui chiede perdono, lei ascende al cielo)  in una storia che ha sempre impressionato per la nera disperazione e la sanguinaria crudeltà dei fatti reali a cui si è ispirata. Sembra che circolino due versioni; io purtroppo ho visionato solo la più breve di 76 minuti.

 

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