Regia di Stefan Avalos, Lance Weiler vedi scheda film
Due parole su The Last Broadcast di Stefan Avalos e Lance Weiler, curioso oggetto mockumentary sbucato fuori ad aprire la strada al quasi coevo The Blair Witch Project nel 1998. Un falso documentario su un triplice omicidio avvenuto all’interno di una foresta nel Jersey, negli States. I tre morti sono due conduttori del talk show Fact or Fiction (titolo abbastanza eloquente), e un aiutante. L’unico ad uscire vivo dall’esperienza è il misterioso Jim, una sorta di veggente un po’ psicopatico e violento, che viene ovviamente accusato immediatamente alla polizia nonostante sia proprio lui a segnalare la scomparsa dei tre compagni di viaggio.
In effetti il film, pur essendo breve, non è particolarmente avvincente. Riesce saltuariamente ad avvincere proponendo una sequela di indizi e di fatti sempre nuovi collegati strettamente alle indagini sui video rimasti, registrati la notte dell’omicidio; ma purtroppo poco inquieta, a livello di immagini, e non risulta un horror di particolare impatto (come sarebbe potuto essere, nel bene e nel male, Blair Witch Project [1999]), e utilizzando l’alternanza di video ritrovati (i noti found footage) e interviste a finti esperti (poliziotti, web designer, video editor) smorza la tensione e rende tutto quasi una storiella da non prendere eccessivamente sul serio.
Però molti elementi, a livello di contenuti, risultano di particolare interesse volendo dare un’occhiata al genere, quello del mockumentary, che è bistrattato, per la brutta roba che hanno propinato a noi spettatori negli ultimi anni (doveroso perdersi nelle solite chiacchiere: le vere perle, a noi sconosciute, non arrivano sui nostri grandi schermi). Il film è di particolare interesse perché proponendo il costante dubbio se si tratti o meno di realtà o finzione (e domandandolo esplicitamente, come diversamente avverrà in BWP), il film sembra riflettere sul potere dell’immagine, o su come essa possa in qualche modo farsi rivelatrice della realtà assoluta. In un certo senso The Last Broadcast scivola dentro il compromesso che ogni buon film del suo genere dovrebbe fare: far finta di stare parlando di cose vere. E il lavoro di dissimulazione, proprio perché sporco, affabulatore e furbetto, risulta notevole.
Il gioco (perché altro The Last Broadcast non è) funziona per praticamente tutta la durata del minutaggio, finché il final twist, narrato da molti reviewers del web come “forzato” e espressione di una grave mancanza di idee su come concludere la vicenda, è in realtà un capovolgimento di tutto ciò che si è visto fino a quel momento: senza fare spoiler, risulta interessante dire comunque che l’immagine diventa improvvisamente ordinaria, fuori dal “point of view” tipico dei mockumentary. Si “fuoriesce” dalla voce fuori campo, che ha accompagnato l’intero lungometraggio. Scopriamo una realtà, un’altra realtà, che sta a monte, e che è più metaforica che plausibile: l’immagine che pretende di raccontare la realtà è una cannibalica malizia. A quel punto può scattare un certo livello di inquietudine, se si riesce a non guardare all’evidente implausibilità degli eventi (e alla fine, per grande ironia, la plausibilità non risulta più ricercata). L’inquietudine sta in questo accartocciarsi su se stesso che fa il film alla fine, e che rivela fondamentali tutte le digressioni, durante il film, che riguardavano gli strumenti per il “restauro” delle pellicole perdute, e la proiezione di quelle stesse pellicole con ampio spazio riservato alle parti rovinate del broadcast. L’immagine rovinata, che nasconde la realtà, si deforma, si comprime, si frantuma nei pixel. Rivelarla è andare contro il suo interesse: ciò che nella pellicola non riesce a vedersi è perché non si deve vedere.
È anche plausibile che certe riflessioni il film non le preveda esplicitamente, anche considerando che la sceneggiatura non appare poi particolarmente brillante, e gli sviluppi non sono originali (di esempi del genere ce ne sono stati diversi anche prima, uno per tutti il fake reality che fu Ghostwatch [1992]). Ma anche inavvertitamente The Last Broadcast finisce per proporre simili aporìe genuinamente cinematografiche, e se si è pronti ad accettare un senso di tedio mischiato ad appena sufficiente intrattenimento, per ciò che riguarda la trama e il “succo narrativo”, forse si riuscirà a intravedere lo strano fascino maledetto di un film tutt’altro che indispensabile, benché tra i genitori del nuovo horror di generazione 2000.
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