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Blue Steel - Bersaglio mortale

Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film

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La recensione su Blue Steel - Bersaglio mortale

di Antisistema
7 stelle

Calcio, canna, grilletto, tamburo, proiettile. Scorporare in singole parti, per assemblare, ottenendo una Smith & Wesson Modello 29, in dotazione a tutti gli agenti di polizia, tra cui Megan Turner (Jamie Lee Curtis), contrapposta alla 44 Magnum, impugnata dal rapinatore di un supermercato, freddato dalla neo-agente di polizia al suo primo giorno lavorativo, la cui arma caduta in terra, finisce nelle mani dell’agente di borsa Eugene Hunt (Ron Silver), presente casualmente in tale luogo.
L’asettica fotografia, dona alla pistola un’aura distaccata, accentuata dall’occhio neutro di Kathryne Bigelow, che si accosta all’oggetto, nei titoli di testa, con approccio illustrativo, fedele al titolo del film “Blue Steel” (1989).
La neutralità dell’immagine, viene colmata nel significante, dall’ossessione morbosa, nei confronti dell’arma da fuoco, di Megan ed Eugene, che ne fanno un catalizzatore delle loro più profonde pulsioni, spinti in un vortice ossessivo sempre più in fondo.
Bigelow va oltre il facile simbolismo freudiano a cui si è soliti associare la pistola, trasfigurandola in uno strumento di risonanza emotiva. Un’arma vista con sensualità dall’occhio umano. Uno strumento da cui scaturisce la violenza e potere. Manifestazioni dell’animo represse da un vissuto quotidiano anonimo.
Dove l’individuo viene annientato dal grigiore della megalopoli di New York, giorno dopo giorno, fino a disperdersi in un insignificante puntino bianco destinato a confondersi nel nulla, assieme a tutti gli altri.
La pistola riempie il vuoto di Eugene, generato dalla caotica vita lavorativa quotidiana, trascorsa tra urla e rumori incessanti, immersi nel frastuono della borsa di New York, i cui ritmi su di giri ricordano quelli di Wall Street (1987) del regista antisistema Oliver Stone – non a caso qui in veste di produttore del film -.
L’agente di borsa a suo dire disprezza il rumore a favore del silenzio, poiché sintomo di un “qualcosa che sta per accadere”. Una perifrasi perfettamente adatta a descrivere la pistola, il cui sordo sparo, riempie la lunga attesa precedente.
Bigelow costruisce la narrazione di “Blue Steel” a “ritmo di pistola”, dilatando oltre ogni dovuto, i campi ed i controcampi, delle personalità distorte e lacerate di Megan ed Eugene, per poi esplodere in una violenza diretta, tipica dello stile della regista.
Un poliziesco, con venature di cadenze da thriller psicologico, che segue i dettami del genere, rimandando nella componente action al cinema di Sam Peckinpah, nell’uso di rallenti enfatizzanti all’infinito l’atto di violenza, ma anche nel trasfigurare il genere all’ambito di un “western metropolitano”, accomunando le personalità deviate dei due protagonisti.

 

Jamie Lee Curtis

Blue Steel - Bersaglio mortale (1989): Jamie Lee Curtis


La lucida follia di Eugene, squarcia le tenebre più profonde della notte, grazie alla luce “rivelatrice” di Megan. 

Impugnando la pistola, spariscono le inibizioni, disvelando la “bestia umana” a lungo celata.
Come di consueto per Bigelow, la regista partendo da un immaginario maschile come il poliziesco, vi innesta la consueta componente femminile, tramite Jamie Lee Curtis.
I suoi lineamenti vagamente androgini, non fanno venir meno il suo lato sensuale conturbante, innalzando la donna a ruolo di sceriffo difensore della legge, ma in modo ambiguo.
Eugene è costruito secondo lo schema rumore/silenzio, mentre Megan tramite un processo di assemblaggio in singole fasi. “Perché mi piace sparare alla gente”. “Perché mi piace sbattere la testa della gente contro il muro”. “Per fermare uomini come lui”. La forma risultante da tali motivazioni sparse, sul motivo dell'ingressoin polizia, svela una personalità violenta, instabile ed altrettanto folle come quella di Eugene. Però Megan non desta mai in chi le sta attorno, tante preoccupazioni come la sua controparte.
Il suo potere della donna, viene giustificato dalle norme legislative – eccesso di legittima difesa è l’accusa mossale per l’assassinio del rapinatore -, nonché dalla divisa indossata, gettando una fredda luce sinistra sul personaggio, il cui viso di profilo, viene fissato immobile nel suo profilo, per un tempo eterno.  
Donna/uomo. Rumore/silenzio. Sesso/violenza. Bigelow prosegue nel suo cinema di forti contrasti oppositivi, scavando nei meandri del torbido a costo di ripetizioni narrative, prolissità varie, incongruenze nella scrittura e sotto-trame abbozzate – la famiglia di Megan, il cui padre è un doppione in scala ridotta di Eugene nell’uso della violenza e di una possibile causa di essa -.
Quello della Bigelow è un cinema la cui componente metafisico/ancestrale, rende meglio se declinata in una chiave istintuale/viscerale, seguendo le pulsioni umane, piuttosto che in una trascendenza di stampo socio-antropologico, in cui si riverberano echi “divini”, al di là della poetica della regista, non troppo a suo agio in tali territori, dove a livello di scrittura il villain paga abbastanza pegno, nonostante la recitazione freddamente austera di Ron Silver, cerchi di metterci del suo nel ridurre le stonature, facendo risaltare i lati torbidi, l’oscurità universale presente nell’uomo.
A conti fatti gli elementi maggiormente degni di interesse di tutta la pellicola.

Ron Silver

Blue Steel - Bersaglio mortale (1989): Ron Silver

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