Regia di William Wyler vedi scheda film
Il noir classico è morto, lunga vita al noir classico
La critica nei confronti dell'istituzione familiare che tanti noir anni Quaranta avevano incarnato inizia ad abbandonare il genere negli anni Cinquanta. Punto di non ritorno sarà proprio questo The Desperate Hours, primo film in bianco e nero girato in VistaVision, che già dall’utilizzo del formato più allargato (1.85:1) sente l’esigenza di abdicare alla dimensione esistenzialista individuale fin lì onnipresente per abbracciare uno scontro sistemico tra le espressioni di due diversi sentire sociali.
Wyler comprende intimamente l’epoca in cui vive: la stabilità del nucleo familiare - il tasso di divorzi nei ‘50 era più basso che nei ‘40 - era esaltata, anche nel forte immaginario televisivo dell’epoca, da serie tv di grande successo come I love Lucy, The Adventures of Ozzie and Harriett, Father Knows Best, dalla vivida impronta pedagogica. La solidità familiare come emanazione della pax americana raggiunta dopo la seconda guerra mondiale era qualcosa che il cinema industriale destinato a essere esportato in tutto il mondo non poteva più contestare, se non ricorrendo agli eccessi tipici del melodramma, come avrebbe fatto il grande Douglas Sirk, subito pronto a convogliare su pellicola istanze che ancora agitavano nel profondo la società americana ma che non potevano più rientrare nei confini del noir: non è un caso che proprio in questi anni nascano capolavori come Secondo amore, Come foglie al vento, Lo specchio della vita. Ma anche Nicholas Ray non si sarebbe tirato indietro nell’instillare una forte componente melo nel film spartiacque del decennio Gioventù bruciata. E ancora Niagara con Marilyn Monroe avrebbe definitivamente segnato la forzata convivenza tra i due generi che avrebbe finito per corrodere il noir nella sua accezione classica e regalare grande popolarità al melodramma.
Ma quali sono le ore disperate? Quelle della più classica famiglia borghese di metà anni Cinquanta che diventa prigioniera di... ex prigionieri? Sì, ovviamente.
Ma le ore disperate sono principalmente quelle della crescita, della maturità e, per estensione, di un genere che non sopravvive al conformismo imperante del nuovo decennio. I due blocchi che si contrappongono per tutto il film raggiungono il successo/fallimento esclusivamente sulla base della capacità di andare oltre i propri limiti e le proprie zone d'ombra.
Fredric March interpreta superbamente la parte di un capofamiglia che scopre un lato della propria personalità che non sapeva di avere e inizia a ragionare freddamente alla stregua di un killer per poter salvare l'unità familiare (I’ve got it in me, all right. YOU put it there).
Humphrey Bogart porta in scena la dannazione del cancro che lo stava consumando e che da lì a poco lo avrebbe ucciso: l'avidità - elemento quintessenziale del noir - lo corrode a un punto tale da voler a tutti costi attendere il denaro della donna quando potrebbe limitarsi a scappare con quanto rastrellato fino a quel momento. Un'interpretazione demoniaca, infernale e senza speranze, esattamente come il genere di cui il suo volto è ancora oggi epitome. Si può dire che il noir classico nasca con Bogart e muoia con Bogart: l’incapacità del suo personaggio di relazionarsi coi due membri della squadra criminale come un vero padre di famiglia ne decreterà la triste fine.
Quello che nelle mani di un regista qualunque sarebbe divenuto un inchino spersonalizzante al conformismo familiare dell’epoca diventa in Wyler un sottile meccanismo di riflessione sul genere. Si respira ancora un’aria strettamente noir dal rapporto tattile con le cose. Bogart e la sua banda toccano insistentemente gli oggetti domestici tipici della famigliola borghese con la consapevolezza di chi sa che quel tipo di vita a loro sia preclusa da sempre ma che pure non perdono occasione per canzonare. Potrebbero scappare col denaro già raggranellato ma preferiscono attendere il malloppo della donna, femme che sarà indirettamente fatale perché sempre fuori campo: ma non è escluso che restino nell’abitazione familiare più del dovuto per motivazioni inconsce che li inducono a non abbandonare il solido tetto comune per cui provano un’attrazione latente (si pensi alle tante osservazioni del mondo esterno dalle tende delle finestre della casa, in particolare quella carica di malinconia di Dewey Martin - che interpreta il fratello criminale di Bogart - per i giovani vicini di casa che vanno a divertirsi, liberi di godersi la propria verde età).
La risoluzione del film riflette lo statuto dei generi della Hollywood di metà anni Cinquanta: il capofamiglia (melo) impara a far proprie la mentalità del criminale (noir) che infesta il focolare domestico. Il criminale (noir) rifiuta di scendere a compromessi con se stesso perché li percepisce come contaminazioni (rigetto del melo).
Quando March furbescamente riesce a puntare una pistola contro Humphrey Bogart, la quintessenza del noir classico, Bogie, con tutta l’amarezza esistenzialista di chi ha vissuto sempre e comunque ai margini del vivere civile, pronuncia, col volto emaciato e sofferente, un leggendario ma ricolmo di dignità:
What are you waiting for?
Il noir classico è morto, lunga vita al noir classico
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta