Regia di Antoine Fuqua vedi scheda film
Ci sono un nero, un indiano, un messicano, un cinese, un irlandese, un cajun e un americano. Non è una barzelletta. È l’epoca Obama. Un’epoca dove le quote razziali sono un insulto al buon senso e al verosimile narrativo, e dove i poliziotti, bianchi, uccidono ancora uomini disarmati e neri. Si credeva che dopo il Django Unchained di Tarantino (2014), sempre di influsso afro-democratico, le cose in America sarebbero cambiate. Invece eccoti la polemica agli Oscar 2016, eccoti Donald Trump, eccoti i poliziotti di Baton Rouge, etc.
I magnifici 7 di Antoine Fuqua (2016) vogliono essere politici tanto quanto gli ultimi western di Quentin Tarantino, ma oltre a un contenuto semplice e diretto – democrazia, capitalismo, dio – che fa dei pistoleri di Rose Creek dei sindacalisti a mano armata, la forma non va nella stessa direzione. Il film è tecnicamente impeccabile e spassoso, ma è anche scontato e prevedibile ad ogni svolta narrativa. Ci sono scene e sequenze ispirate; perfino certe inquadrate sanno restituire nella loro brevità un’emozione forte, quasi epica. Ma di epica non si può parlare.
Il western è un genere molto codificato; radicato nella storia – o nella leggenda – di un paese e dei suoi cittadini. Ma è anche un genere duttile, facilmente ibridabile, pluriadattabile, evocativo nel suo primitivo ed essenziale immaginario, minimalista e neutro, e proprio per questo è il teatro di tutte le umane passioni. Non deve essere necessariamente epico, può anche essere prosastico, antinarrativo, perfino “da camera”, ma I magnifici 7 di Fuqua è un normalissimo film d’azione dall’intreccio risaputo e anticipabile, travestito da western. Il regista non riesce a catturare l’anima dell’originale e restituire il vigore di un’avventura al maschile.
Complice di questa flessione estetica è anche l’epoca attuale. Il progresso delle tecniche cinematografiche allontanano sempre di più il prodotto finale da un’estetica mitica. Oggi, i movimenti di macchina – dolly, carrellate, steady, etc. – sono talmente fluidi che i film sono quasi tutti il risultato di una composizione di piccoli pianisequenza. Una volta, questa fluidità di movimento, era limitata a certe scene e a certi inserti narrativi. Il resto era tutto montaggio. Sapiente montaggio. Oggi, invece, non c’è un film che non sia così fluido nei movimenti di camera. L’obiettivo segue i personaggi silenziosamente, perlustra gli ambienti, interni ed esterni come un drone, senza però attivare l’elemento epico, distante per definizione.
Questo non è solo un problema de I magnifici 7 di Fuqua, problema che risalta ancor di più proprio perché trattasi di un western, quindi di materia epica, ma è un problema dell’estetica cinematografica contemporanea. Almeno dal cambio di secolo. A questo va aggiunto che, sempre dall’inizio del nuovo secolo, i film western americani, non tutti, hanno preferito la via dell’aderenza storica al dettaglio iconografico invece che di giocare sui simboli e la distanza alteritaria. La cura minuziosa del costume, dell’aspetto fisico e degli accessori ha rasentato così tanto l’artificioso da risultare stucchevole. Guardare un western oggi, o meglio, un western main stream di oggi, sembra quasi di entrare in un parco a tema, tanto preciso quanto posticcio. Inoltre, la patinatura dell’immagine, unitamente al linguaggio fluido immersivo e all’aderenza storica, fa di questi prodotti poco di più di una buona fiction televisiva, il cui linguaggio è appunto mirato più alla chiarezza e alla banalità, che alla ricerca formale e quindi anche alla efficacia del contenuto.
Quelli che ho chiamato neowestern, di cui Slow West (2015) potrebbe esserne l’esempio migliore, poggiano invece su ben altri parametri: una grammatica più cinematografica con un uso sapiente del montaggio, dei movimenti e delle inquadrature; uno straniamento estetico che coinvolge personaggi, luoghi e intrecci, sull’esempio dei nostri spaghetti western; e una scelta fotografica più personale e autoriale – la forma è il contenuto.
Da qui, l’incertezza della riuscita del remake dello storico I magnifici sette (1960), già di suo con qualche limite – siamo dopotutto sul finire dell’epoca d’oro del cinema classico hollywoodiano e a sette anni dalla New Hollywood, e si sente nonostante la solidità della regia di Sturges e la presenza di grandi attori iconici come Brinner, McQueen, Wallach, Bronson e Coburn. In Fuqua per esempio, oltre qualche diretto omaggio anche testuale alla pellicola originale, la storia prende altre direzioni: è quella di un assedio vero e proprio, la storia di un armamento fin troppo complicato, pieno di trappole e livelli – e qui, di nuovo, l’influenza negativa del videoludico.
A parte qualche momento realmente ispirato – a random: l’arrivo del guerriero indiano, la sparatoria di accoglienza a Rose Creek, i demoni di Ethan Hawke, la sagoma di Denzel Washington la notte prima della battaglia e la morte di Vincent D’Onofrio – il film è realizzato con scelte linguistiche piatte e omologate. Per non dire del melting pot delle dramatis personae che insulta il prototipo originario. In Fuqua i personaggi hanno per lo più un peso razziale, il che fa del film un film politico, e questo è un valore aggiunto; ma in Sturges, i personaggi avevano per lo più un peso antropologico. Non c’era il nero, il cinese, il messicano e così via, c’era invece il cavaliere solitario (Brinner), la bella canaglia scapigliata (McQueen), il gigante buono (Bronson), l’uomo freddo e infallibile come le lame dei suoi coltelli (Coburn), lo spaccone tutto soldi e belle donne (Dexter), il pistolero che lotta con i suoi demoni (Vaughn) e il giovane irrequieto e turbolento (Buchholtz). In Fuqua, solo steretopiti razziali in livrea action – il cinese interpretato da Lee Byung-hun sembra rubato da un matrix qualunque e buttato di forza nell’orizzonte western – da non confonderlo quindi con la soluzione narrativa adottata in Sole rosso (1971), che è tutta un’altra cosa.
Certo, il personaggio di Charles Bronson, Bernardo O’Reilly, era mezzo messicano, mezzo irlandese e mezzo chissà che cosa, e anche il giovane pistolero di Buchholtz confessa di avere le stesse origini contadine dei peones che difende, ma non credo sia la stessa cosa che mettere in campo sette personaggi così puerilmente divisi per razza, nonostante il collante americanista.
I magnifici 7 resta sicuramente un buon film, dall’intenzione politica nobile, ma poteva anche non essere un western. Essendolo, il regista avrebbe dovuto seguire la pista degli ultimi neowestern e farne un prodotto diverso. Non si discute la simpatia e la presenza scenica di Chris Pratt – il Terence Hill d’America – e la riuscita caratterizzazione del personaggio di Red Harvest, ovvero Martin Sensmeier, nativo di origini Tlingit, un popolo indiano dell’Alaska, ma le scelte estetiche e linguistiche, oltre alle svolte narrative poco credibili, lo allontanano dalla media più che buona degli ultimi western di questi anni. I neowestern.
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